E fu così che una sera di maggio, la vigilia del mio compleanno, al rientro a casa dopo una cena con amici speciali che non vedevamo da mesi e che ci comunicavano grandi novità, cena in cui il Teodolindo aveva bevuto uno o due bicchieri più del dovuto per l'occasione speciale, una di quelle sere in cui dici "Caspita, che serata! La primavera è qui, i nostri amici pure, e la vita è proprio bella!" e fu così, dicevo, che il telefono squillò. E quando presi il cellulare lessi quel nome sullo schermo che già sapevo cosa voleva dire una telefonata da quel numero alle dieci di sera.
"Bonsoir Roberta, vous allez bien?"
La voce allegra di chi sa di essere foriero di buone notizie.
Sì, stavo bene, e avevo come l'impressione che nei prossimi minuti tutto sarebbe potuto cambiare.
Quella voce allegra ci dava informazioni su di lui: un 15 kg di bambino, maschio, di due anni e poco più, tenace, attaccato alla vita fin dal suo terzo giorno su questo mondo, laggiù in Cina, in una città che noi non avevamo mai sentito nominare.
Le emozioni dovevano però essere messe da parte temporaneamente. C'era da visionare il suo dossier medico, la sua storia, richiedere eventuali ulteriori informazioni o esami, ed infine dare la nostra risposta. Il tutto entro 72 ore.
In particolare dovevamo capirci di più su due problemi di salute che il bambino si porta dietro dalla nascita, uno dei quali avrebbe spaventato molti, ma non me e il Teodolindo. Che noi siamo medici e certe robe non ci fanno paura. O almeno così avevamo pensato, fino a prima di vederlo scritto nero su bianco sulla cartella clinica di quel bambino. Invece lo spavento ci ha colti, o forse più la preoccupazione per il futuro.
Abbiamo preso i nostri computer e abbiamo scritto a tutti gli amici e colleghi specialisti che potevano darci informazioni aggiornate sull'argomento e su cosa avrebbe potuto comportare nella vita del bambino e di noi tutti.
Siamo andati a dormire, non so a che ora. Abbiamo dormito poco. Siamo i genitori adatti per quel bambino? Possiamo dargli quel di cui ha bisogno? Eh? Lo possiamo?!
Al risveglio aspettavamo che fosse l'altro a parlare.
"Tu che dici?"
È bastata l'intonazione o forse un accenno ad un sorriso a farci capire che per entrambi quel bambino, fosse stato per noi, sarebbe diventato nostro figlio.
La decisione è venuta prima delle dettagliate risposte degli amici e colleghi che, ovviamente, a differenza di noi, quella notte avevano dormito ed avevano poi trovato le nostre domande al mattino.
A quel punto abbiamo potuto fare spazio per tutto il resto.
Prima fra tutte, la sua storia, che è di appena due anni e sembra impossibile possa contenere così tanti eventi, tra cui
en passant una chirurgia.
Poi, soprattutto, il temperamento con cui lui ha affrontato il tutto, tanto da portare chi l'ha accudito finora a dargli un nome cinese che tradotto sta per "per sempre tenace, resistente, combattivo".
Infine quelle poche immagini di lui, due minuti totali di video, il primo girato parecchi mesi fa in cui si vede un pulcino che ride di gusto a chi lo riprende con la telecamera e che poi lancia palline con una forza smisurata per quel corpicino (
urge trovare riparo per le mie porcellane), e il secondo più recente in cui il nostro eroe esplora, si arrampica su scalini più alti di lui e non desiste di fronte alle prove a cui l'educatrice lo sottopone per mostrare cosa sia capace di fare.
La sera ci siamo ritrovati in un momento di silenzio, poi il Teodolindo mi ha letto nel pensiero:
"Chi l'avrebbe mai detto..."
"Cosa?"
"Che il primo sentimento che avrei provato per mio figlio sarebbe stata l'ammirazione".