Saturday, February 28, 2015

Al fricc dal marghé

Ogni sera, dopo cena, mia madre mi scrive una e-mail.
Non so nemmeno se possa definirsi tale, l'e-mail, visto che della lettera ha molto poco: manca spesso di un inizio, talvolta non termina neppure con un saluto finale, e il corpo stesso della mail è simile ad una rassegna di pensieri non necessariamente collegati l'uno all'altro.

In pratica, le e-mail di mia mamma sono la riproduzione della tipica conversazione che avremmo se io fossi a casa dei miei, seduta sul divano della loro cucina: mi dice cosa hanno fatto lei e mio papà durante la mattina, poi passa a farmi la recensione del film che ha visto al cinema con le amiche la sera prima, poi da lì può collegarsi ad un libro che sta leggendo. Magari fa un accenno allo stato di salute di uno zio o zia, perché le viene in mente e non vuole dimenticare di dirmelo, per finire dicendomi che smette di scrivere perché inizia Santoro o la Gabanelli.
Alla fine a me le sue e-mail piacciono proprio nel loro essere un po' sconclusionate. In fondo ben rappresentano mia madre e il suo essere assolutamente originale.

Una sera di questa settimana, subito dopo avermi scritto che sta leggendo un libro ambientato in Islanda, ha aggiunto una frase tipo: "Adesso ti do una ricetta semplice: al fricc dal marghé*", e me l'ha scritta. Ha concluso dicendo che è un piatto tipico delle nostre zone, e che lei la fa ogni tanto. Saluti e baci e bon, e-mail finita così.
Cosa c'entrasse il fricc dal marghé con il resto dell'e-mail non è dato sapersi. Per di più, la ricetta del fricc del marghé non so da dove sia saltata fuori, perché in vita mia non l'ho mai mangiato né sentito nemmeno nominare in casa nostra.
Mio fratello, anche lui all'estero, la stessa sera aveva ricevuto l'e-mail quotidiana di mia madre, che citava anche a lui la stessa ricetta. E neppure lui, come me, ricordava di aver mai mangiato a casa questo fricc dal marghé, che all'improvviso diventava argomento di conversazione internazionale tra noi fratelli.
Questa è nostra madre.

Stasera l'ho cucinato, tanta era la curiosità di assaggiarlo.

Direttamente dalla e-mail di mia mamma:
"Faccio fondere un po' di formaggio in una padella senza condimento, 
io uso quello coi buchi (gruviera, ndr. Io invece ho usato una Tomme de Savoie, più simile a un formaggio biellese rispetto al gruviera...)
quando è quasi tutto fuso, rompo un uovo, 
un po' di sale e giro il tutto finché si rassoda l'uovo."
La toma fatta fondere in un pentolino con un po' di burro
"È una ricetta piemontese e si chiama "AL FRICC DAL MARGHÉ
Si mangia al momento. Buon appetito."

Al Fricc dal Marghé, con una spolverata di pepe.




*Al fricc dal marghé, ovvero "il fritto del margaro" che è colui che alleva mucche e fa formaggi nelle valli biellesi. La ricetta tradizionale prevede l'uso di toma biellese, meglio se giovane, o un buon maccagno (uhm... maccagno!!), ma a mia madre, pur essendo piemontese, la toma proprio non piace. Si accompagna splendidamente con della polenta.

Thursday, February 26, 2015

Non è mai troppo tardi

Il primo paio di Dr. Martens comprati a 36 anni.

Li tengo ai piedi in casa così prendono la forma... Ma quanto belli sono?!

Sono passata indenne attraverso gli anni novanta, mentre i Dr. Martens imperavano e la snob che è in me li trovava cafoni, per risvegliarmi adesso e sognare di indossarli con calze spesse, abitini o gonne corte per andare a cena fuori. Non neri, ma blu navy.

L'acquisto è stato una vera esperienza: in un negozio di quelli da giovini, con musica a palla e luci al neon, io, appena uscita dal lavoro, indossavo gonna blu, un golfino nero di lana, orecchini di perle e passeggiavo su e giù provando 'sti Dr. Martens, che proprio comodi non sono.
Il giovine commesso che mi assisteva aveva berretto di lana calato sugli occhi, camicia di jeans con colletto abbottonato e occhiali da hipster. Con aria da chi nella vita ne ha viste di ogni, mentre io andavo su e giù, mi dice:
"Madame, mi lasci dirle una cosa: i Dr. Martens si devono distruggere prima di sentirli comodi!"
Io l'ho guardato e avrei voluto dirgli: "Tesoro, ho visto schiere di Dr. Martens ai piedi della gente prima che tu nascessi!".
Invece, da vera madame quale sono, gli ho risposto: "Oui, merci, je le sais: tutti i miei amici li avevano vent'anni fa". Al che ci siamo scambiati un sorriso compassionevole a vicenda e ho concluso l'acquisto.

I was meant to have them now...

Thursday, February 19, 2015

Tu mi scruti e mi conosci



Se dico: "Almeno l'oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte";

nemmeno le tenebre per te sono oscure,
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.



[Marc Chagall "Dans la nuit" (1943), Philadelphia Museum of Art 

Salmo 138]

Friday, February 13, 2015

Mare nostro


Potete respingere, non riportare indietro,
è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata. 

da qui

Da qualunque distanza arriveremo, a milioni di passi
quelli che vanno a piedi non possono essere fermati

Da nostri fianchi nasce il vostro nuovo mondo,
è nostra la rottura delle acque, la montata del latte.

Voi siete il collo del pianeta, la testa pettinata,
il naso delicato, siete cima di sabbia dell'umanità.

Noi siamo i piedi in marcia per raggiungervi,
vi reggeremo il corpo, fresco di forze nostre.

Spaleremo la neve, allisceremo i prati, batteremo i tappeti
noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo.

Uno di noi a nome di tutti ha detto:
"Va bene, muoio, ma in tre giorni resuscito e ritorno".

da "Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo"
di Erri De Luca. Feltrinelli, 2005.




[La foto, Mare nostrum, è di Massimo Sestini ed ha ricevuto un 2015 World Press Photo Award]

Saturday, February 7, 2015

Un altro modo di vedere la pizza

La pizza fatta in casa ha per me un solo profumo e un solo sapore: quelli della pizza fatta da mia nonna in Sicilia. Pasta spessa, saporita, sugo di pomodoro, olive nere, acciughe, origano, pecorino grattugiato e uova sode (uova dure) tagliate a fette. Questa era la base, poi lei ci aggiungeva quel che d'altro trovava in casa: mortadella, salame, capperi. Leggera...

Infornava teglie di pizza per noi in vacanza che tornavamo dal mare e al rientro la trovavamo seduta sulla sedia che teneva di fianco al forno per controllare di continuo la cottura. Me la ricordo con la fronte perlata di sudore, per il calore, e gli occhi che ridevano al vederci rientrare in casa dopo la giornata in spiaggia. Si faceva aria con un ventaglio, sempre a portata di mano, riuscendo a essere una signora anche in quella situazione. C'erano 40 gradi fuori, e in quella cucina anche di più visto il forno acceso. La corrente d'aria tra le camere era indispensabile e facilitata dalle porte aperte, fermate da vasi o sedie. Era un'aria calda che intorpidiva, e ti entrava nella pelle, la stessa che ancora adesso ogni tanto sogno di notte, quando più mi mancano il sole e il vento di quella terra.
C'erano 40 gradi e mia nonna passava il pomeriggio ad infornare pizza per noi. Di sicuro era andata a riposare dopo pranzo, per poi avere le energie per quella sauna da pizzaiola.

L'estate del 2003 è stata l'ultima in cui siamo andati giù da nipoti. Eravamo io, mio fratello e la sua fidanzata, quella che ora è la mia belle-soeur. Sono stati giorni memorabili, in cui la mia belle-soeur ha capito da dove arrivavamo e si è innamorata di quella terra, di quel caldo e di quel vento. E della mia nonna che cucinava.

Mia nonna aveva allora 78 anni. Infornava pizze con 40 gradi. Era stravolta, ma felice.
Ricordo che lei e mio nonno incrociarono lo sguardo e si scambiarono due parole, in siciliano o forse in un linguaggio loro. Poi mio nonno ci guardò, benevolo ma severo, come sempre, e ci disse: "È l'ultima volta che la nonna fa la pizza, si stanca troppo".

Da quel momento ho guardato mia nonna con altri occhi. Per anni avevamo mangiato quel che cucinava, divorato teglie di pizza ad ogni ora del giorno, facendole complimenti ed onorando sempre la sua tavola. Mai però mi ero resa conto della fatica fisica che c'era dietro a quel cucinare, lei che per undici mesi all'anno lo faceva solo per sé e mio nonno.
Adesso che cucino, so ancora di più. Adesso so anche la pienezza nel cuore che si prova nel vedere persone nutrirsi di quel che si è cucinato e in fondo so che lei è sempre stata semplicemente contenta di farlo per noi.
Eppure mi resta il rammarico di non averle mai detto grazie abbastanza per quelle ore passate di fronte al forno.






Questa è la ricetta della mia pizza senza glutine. Non c'entra nulla con quella di mia nonna, e tutte le volte che la mangio, pur trovandola buona, non posso non notarne le differenze.
80g di farina di riso bruno (integrale)
60g di farina di mais o di ceci o di sorgo*
100g di farina di tapioca
un cucchiaino di psyllum husk
due cucchiaini di lievito di birra secco
120g di acqua a temperatura ambiente
un cucchiaio di olio
un cucchiaino scarso di sale

Setacciare le farine insieme con lo psyllum. Nel frattempo sciogliere il lievito di birra in un poco di acqua tiepida con mezzo cucchiaino di miele. Quando il lievito è attivo, aggiungerlo alle farine, insieme all'acqua e all'olio. Impastare bene. All'inizio il composto sarà molto sbricioloso, quindi, grazie allo psyllum husk, diventerà più elastico. Non lo sarà mai quanto un impasto per pizza con glutine, ma la consistenza finale sarà all'incirca questa

Elastico per modo di dire, le impronte delle dita restano e non se ne vanno...
Si forma una palla, la si unge su tutta la superficie con un poco di olio, e la si mette a riposare al riparo (ad esempio dentro al forno spento) in una ciotola chiusa con pellicola trasparente e avvolta in una coperta.
Dopo circa un'ora l'impasto sarà lievitato e pronto per essere steso. A differenza della pizza con glutine, non avrà proprio raddoppiato il volume. Piuttosto sarà la consistenza a essere cambiata, diventando abbastanza spugnosa.
Si stende l'impasto in una teglia da pizza ben unta, o ricoperta da carta forno. Anche in questo caso, la differenza rispetto alla pizza tradizionale si nota molto e la sensazione nello stenderla è quella che Mary Valeriano descrive molto bene in questo video al minuto 5.15 (la adoro). In altre parole, anche se la consistenza sembra più simile alla pasta frolla che alla pizza regolare, la cottura in forno farà poi il miracolo.

Una volta stesa, si condisce con salsa di pomodoro abbondante, un filo di olio, e si inforna a 200 gradi C per 15 minuti. Si estrae dal forno, si aggiunge la mozzarella, gli altri ingredienti che più aggradano, origano, ancora un filo d'olio, e si rimette in forno per altri dieci minuti. Io, se ce l'ho, aggiungo sempre del pecorino grattugiato o, come nel caso della foto in alto, della ricotta salata.





*la scelta tra le varie farine è a livello di gusto personale:
-io amo molto usare la farina di ceci, che però alcuni trovano troppo gustosa al punto da sovrastare gli altri ingredienti (per me no, ma deve piacere);
-la farina di mais è ottima in termini di gusto, saporita il giusto, però rende l'impasto un po' più duro da stendere, anche se il risultato finale in termini di morbidezza non cambia;
-la farina di sorgo è il buon compromesso, non incide sulla consistenza dell'impasto ed ha un sapore piuttosto discreto.




Monday, February 2, 2015

Le tempeste di una volta

Ci siamo svegliati questa mattina e nevischiava. O meglio, era in corso una "tempestucola" di neve che rendeva il paesaggio così:

Panorama da una finestra dell'ospedale, direttamente sul campo di football. Quel che sembra nebbia è impalpabile, implacabile neve...

Niente di che, a dire il vero, in quest'inverno che per ora ci ha regalato ben poca neve in confronto agli anni passati. Il Signor Inverno sta pero ricompensando con le temperature: questa mattina -34. Menotrentaquattro! Alla fermata dell'autobus non sentivo più i piedi, pur nei miei ultratecnici winter boots garantiti fino a -25 (e infatti...) e per un attimo ho capito fisicamente che di freddo si può davvero morire.

In ogni caso, di neve poca e bianco candor altrettanto scarso.

Vien quasi da dire che non esistono più le tempeste di una volta, quelle che facevano il metro di neve in terrazzo, che il Teodolindo doveva spalare per ben due volte: una per liberare il suddetto terrazzo e una per andare al piano terra a disostruire l'entrata dei vicini dalla neve appena spalata e buttata di sotto.

Chi l'avrebbe detto che avremmo ripensato quasi con nostalgia a quella famosa tempesta del secolo del 27 dicembre 2012, data che resterà nella storia non solo per noi italiani emigranti, ma anche per i Montrealesi, tutti esterrefatti con il naso all'insù a chiederci: "Ma quanta mai potrà venirne giù in un solo giorno?!"
Tanta così:

Il famoso balcone


Il nostro balcone da solo non rende l'idea di cosa era stata quella tempesta, mentre lo fa bene questo video.
C'è tutto: il vento gelido, le macchine sommerse e la spalatura solidale (tutti a liberarne una, poi tutti a liberarne un'altra), gli slittini, e soprattutto al minuto 3.19 compaiono loro, i veri padroni della città, ovvero i trattorini spazza-marciapiedi, che sfrecciano ai 50 km/ora sui marciapiedi e se il tuo cammino si incrocia con il loro, vince il trattorino, sempre.

I Canadesi, nel loro solito stile, di fronte a tale tempesta reagivano con filosofia e se la ridevano beati per l'evento eccezionale.
Uno fra tutti lui, Sebastien Toutant, sbarbatello snowboarder professionista e campione del mondo, esattamente 12 ore dopo la fine della tempesta ha preso la sua tavola, è salito in cima al Mont Royal, la collina al centro della città da cui questa prende il nome, e si è buttato di sotto per una sciata downhill fin quasi al porto. Ha attraversato il parco, il cimitero, è passato dietro all'ospedale dove lavoro e di fianco alla facoltà di medicina e si è avviato tranquillo verso il fiume.

Dopo due anni questo video ancora mi emoziona, perché a vederlo uno quasi non ci crede che si è nel cuore della città.


Questa è Montreal, in tutto il suo invernale splendore.