Tuesday, November 19, 2019

La rabbia e la speranza

Ho conosciuto una persona che mi ha folgorato. Purtroppo, almeno per ora, l'ho conosciuta solo tramite i social network, ma chissà...
Parlo di Esperance H. Ripanti.



Un giorno il mio amico Kim Soo-Bok Cimaschi (adottivo italiano di origine sudcoreana, direttore della rivista AdopNation) mi invitato a seguire la pagina di Esperance su facebook, così senza neanche dirmi perché. Non che mi ci volesse molto a capirlo: italiana, nera, adottata.
E anch'io, senza neanche ringraziarlo, ho iniziato a seguirla. Con lui spesso è così, ci mandiamo riferimenti, contatti, e bon, ci si capisce. E infatti sono bastati due post per capire che era rivoluzionaria, almeno per la realtà italiana, e che l'avrei amata visceralmente.

Un po' ne ho parlato su questo blog, ma sempre troppo poco per i miei gusti, di una questione che mi sta veramente a cuore, ovvero gli italiani e il razzismo. E qui di solito c'è già gente che storce il naso.
Qualcuno già dice "ma gli Italiani non sono razzisti" o, altra faccia della stessa medaglia, "non siamo mica tutti razzisti". 
Sì. Lo siamo.
E non vogliamo rendercene conto. Non vogliamo sentircelo dire.
Il problema è che in Italia si è così indietro, ma così indietro sull'idea di una società multirazziale e multiculturale, che ci manca ancora la consapevolezza, ci mancano le basi per analizzare il problema.
Chiarisco subito un punto fondamentale. Non è che io ne sia immune, anzi. Io sono razzista come gli altri. Solo che ho avuto il puro culo di trovarmi a vivere da nove anni in un paese che me l'ha fatto capire. Il Teodolindo ed io a stare a Montreal abbiamo imparato che siamo razzisti, come lo sono gli italiani. Ma abbiamo anche imparato che, come dice Maya Angelou:


Quindi:
1. apertura degli occhi: "Oh cazzo, vuoi vedere che sono razzista? Io?!"
2. sconforto, smarrimento
3. reazione: "Ok, e adesso che lo so? Cerco di fare meglio, e soprattutto ci faccio attenzione"

Il punto è che avendo un figlio italiano appartenente ad una minoranza visibile questo processo ha assunto caratteri di urgenza. Mentre io, bella immersa e comoda nel mio privilegio di persona bianca, potrei anche prendermi tutto il tempo per cambiare il mio essere razzista, il Sig. Tenace vive sulla sua pelle, letteralmente, quella lacuna enorme della società italiana e mi obbliga - grazie! - a muovere il culo, perché io devo cambiare, le cose devono cambiare, adesso.
Quando qualche giorno fa l'ultrà del Verona ha detto di Balotelli (toh, un altro italiano nero adottato!) che "Lui non sarà mai totalmente italiano", io ho ringraziato che il Sig. Tenace non leggesse i quotidiani, ma quelle parole sono risuonate così familiari, ma così familiari! E dire, io non conosco neppure un ultrà e non ho amicizie nel mondo dell'estrema destra, ma quella frase lì "Ah, sì, il Sig. Tenace è italiano, ma non è italiano. Capisci cosa voglio dire?" me la sono sentita dire troppe volte. In primis da mia madre, alla quale se provo a dire "Ti rendi conto che hai detto una roba davvero razzista?"
mi risponde "Chi io? Ma no! Oh come sei suscettibile". 
O l'anno scorso quando ho fatto notare ad un mio contatto facebook che no, vestirsi da "orientale" (per inciso, si dice asiatico, orientale sono i tappeti) a carnevale non si fa, che la cultura altrui non è un costume, mi sono sentita dire "Va bè, ma allora non si può più travestirsi da niente!".
Di questo sto parlando, non dell'insulto "n**ro di merda" che siamo tutti capaci ad identificare come sbagliato.

Seconda rivelazione: non sta a noi decidere cosa sia razzista o no. Se una persona appartenente ad una minoranza visibile, o uno straniero, ci dicono che certi comportamenti, certe parole, sono razziste, facciamocene una ragione. Sit with your discomfort, dicono qui, stiamo zitti e impariamo. 

Perché tutta 'sta premessa fiume per parlare di Esperance?

Perché da anni il Teodolindo ed io viviamo con un senso di frustrazione immane, che spesso si trasforma in rabbia. Vorremmo che gli italiani capissero come sta messa l'Italia, che chi fa paura non è solo Salvini, ma sono anche quelli che si tingono la faccia di nero, quindi con un gesto di per sé storicamente razzista, per protestare contro il razzismo e si mettono la maglietta "L'unica razza che conosco è quella umana!" (ci credo, sei bianco! Vallo a dire agli italiani neri che le razze non esistono...). 
La soluzione, una delle soluzioni almeno, è dare più voce e visibilità agli italiani non bianchi. E allora ogni volta che una di quelle voci emerge, io vorrei far loro da amplificatore:

Kim Soo-Bok Cimaschi e Laura Pensini



Igiaba Scego



E Esperance H. Ripanti.



La missione di Esperance, per sua stessa definizione, è di cambiare la voce della narrazione. Lei vuole raccontare storie di italiani come lei, perché ce n'è bisogno. Perché i bambini italiani neri, le ragazzine italiane nere hanno bisogno di storie con personaggi in cui possano identificarsi. 
Il Sig. Tenace ha bisogno di storie, di personaggi -italiani! - con i suoi tratti somatici. Altrimenti si sentirà sempre uno straniero. Altrimenti si sentirà sempre "Italiano, ma non completamente italiano". 

Esperance parla senza mezze misure. Dice chiaro e tondo che lei non deve essere riconoscente a nessuno. Né ai suoi genitori adottivi, né ad un paese che l'ha "accolta". Perché il concetto di riconoscenza prevede un rapporto di inferiorità, non di uguaglianza. 
Dice chiaramente che gli italiani sono razzisti, e quelli che vanno in Africa e si fanno le foto con i bambini neri e poi le mettono su facebook, lo sono anche più degli altri perché partono dalle migliori intenzioni possibili. Oh, scandalo!

Come dice Esperance, avere il coraggio di dire le cose, di chiamarle con il loro nome, le fa diventare reali. E allora ci si può lavorare su e si può sperare nel cambiamento.

La rabbia che diventa speranza. 

Se ancora non conoscete Esperance e la volete conoscere:
-ha appena scritto un libro


-è stata intervistata dalla Bignardi (link);
-è in questo podcast illuminante;
-e per gli amanti dei libri, ha pure un suo podcast che si intitola Bookcrossing.

Oppure fate come me e seguite la sua pagina facebook e il suo profilo instagram.









25 comments:

  1. Grazie, oggi avevo proprio bisogno di queste parole.
    Do

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  2. Grazie! Sono un'insegnante di scuola primaria che tutti i giorni lavora con i bambini e con me stessa per abbattere il razzismo invisibile della nostra società.

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    1. Grazie a te, Speranza. Quello che tu e il corpo insegnante potete fare ha un valore immenso. Ad esempio ho la curiosità di sapere se proponete ai bambini libri con protagonisti diversi dal solito bambino o bambina bianca. Qui in Canada è una cosa a cui si fa attenzione, ma in Italia? I bambini come mio figlio troverebbero personaggi in cui specchiarsi nei libri proposti nelle scuole?

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    2. Mmm. Mi pare di no. Almeno io non ci ho fatto caso. Mi fai riflettere su questo punto, andrò nella biblioteca della scuola e contollerò e magari posso chiedere di comprare dei libri seguendo le tue indicazioni. Continua a scrivere di queste problematiche, è bene che se ne parli.

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    3. Oh, allora mi toccherà fare un post sui libri per bambini con protagonisti "racially diverse" (scusa, non so il termine in italiano). Che bello!

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  3. Grazie e mi permetto di contribuire, aggiungendo tra le Voci anche quella di Devi Vettori, Sangeetha Bonati, Manuel Antonio Bragonzi, Aroti Shrimati Bertelli per chi vuole cercarle sulla rete.

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    1. Sempre preziosa, Marcella. Tra l'altro se non ricordo male, sei tu che mi hai fatto conoscere Kim, quindi tutto parte da te! :)

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  4. Come ti capisco!
    Ho due figli che si sentono continuamente dire " cinese del ca..o e nero di me..a"...gli italiani sono razzisti eccome...!!
    E la cosa più allucinante è che più ci parli e più scopri che neppure se ne rendono conto.
    Ho seguito l'intervista di Espérance e mi sono comprata il libro.
    Michela

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    1. Sì, secondo me però sono molto più pericolose le frasi più subdole, perché gli insulti chiari e palesi sono facilmente identificabili. Quelli più sottili rischiano addirittura di essere interiorizzati.

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  6. https://alessandrolinh.blogspot.com/2017/07/lombrellone-protettivo-del-white_13.html

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    1. Ma l'avevi pubblicato su adopnation, vero?
      L'avevo letto!

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  7. L'articolo non è mio, ma già due anni fa lo avevo trovato molto bello e in questi giorni l'ho ripreso (e ripostato sul mio blog).
    Sì, il non detto forse è peggio degli insulti diretti, ma credimi, per un ragazzino di 13 anni essere apostrofato spesso con parole del tipo "cinese di m..da o del ca..o" non è bello...soprattutto in un periodo della propria vita (la preadolescenza) in cui si cerca di uscire dal "nido caldo" della propria famiglia per cercare il proprio posto e la propria identità nel contesto sociale.

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  8. Ciao! Grazie per queste riflessioni. Mi hanno fatta pensare, e come dici tu è vero che alcune volte non ci si rende davvero conto che qualcosa possa non essere corretto, o possa essere sgradevole per altri.
    Ad esempio io non troverei offensivo un vestito di Carnevale da asiatico, un bambino che per Carnevale mette dei vestiti e un cappello della tradizione cinese, o medeghina, o tirolese. Potrebbe essere anche un'occasione per conoscere qualcosa di un altro paese, per parlarne, per mettersi nei panni di un'altra persona. Naturalmente dipende anche dallo spirito con cui lo si fa.
    Immagino quanto possa essere sgradevole sentirsi dire "sei italiano ma non del tutto"... forse alcune delle persone che lo dicono (per esempio la tua mamma) intendono dire che oltre ad essere italiano quella persona ha un bagaglio che contiene anche altre cose, e quindi ha una prospettiva diversa dell'essere italiano?
    Cosa ne pensi? I'm ready to sit with my discomfort for a while now :-)
    Mi fa piacere sapere cosa ne pensi!

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    1. Ciao Giulia,
      la risposta al tuo commento meriterebbe un post a parte, ma cercherò di essere concisa.
      Sono contenta che tu sia pronta a "sit with your discomfort", è il primo passo! :)
      Per andare al dunque delle tue domande:
      -Innanzitutto, non sei tu, non siamo noi, a decidere cosa sia offensivo o no. Se i cinesi, gli asiatici, i nativi americani dicono che travestirsi ispirandosi alla loro tradizione culturare è offensivo, noi tacciamo, accettiamo la cosa ed cambiamo costume. (Sarebbe un po' come chiedere ad un marito violento se trova doloroso il calcio che ha tirato alla moglie, non sta a lui deciderlo...). Poi riflettiamoci un attimo su quei costumi: sono davvero parte della tradizione culturale di un popolo o sono piuttosto basati su stereotipi duri a morire? Se tuo figlio decide di vestirsi da "cinese" tu gli dici: aspetta facciamo un attimo di ricerca, andiamo a chiedere alla nostra amica Xiaoqian cosa vuol dire, o piuttosto usi un immaginario a noi noto in cui gli asiatici hanno più o meno una vestaglia addosso e gli infradito, e magari la faccia un po' gialla (orrore) e si inchinano e parlano con la elle al posto della erre? Almeno per quanto riguarda la mia esperienza, la maggior parte delle volte si tratta della seconda che ho detto...
      Ma ammettiamo anche che invece voi siate diligenti e davvero facciate un po' di ricerca, e magari tu prendi un sari e te lo metti per travestirti da indiana: davvero quello è un "mettersi nei panni dell'altro" o è solo un divertimento a nostro unico vantaggio? Faccio l'esempio del sari, proprio perché sembra farlo apposta ma ieri sera sono uscita a cena con la mia amica Sunita, canadese di origine indiana, e lei mi raccontava per l'appunto che ad halloween una sua conoscente (capita ancora anche qui seppur di rado) si è vestita da indiana. Lei se l'è trovata davanti e, shockata e molto a disagio, non ha avuto il coraggio di dirle quello che pensava e le bruciava: "Quello che stasera tu hai addosso per divertirti è il vestito che noi usiamo per le cerimonie davvero importanti, io l'ho messo si e no tre volte in vita mia e tu non solo lo indossi alla cazzo, oops, nel modo sbagliato, ma lo stai pure sporcando di fango e neve..."
      Ancora una domanda per riflettere: quando un uomo si traveste da donna per carnevale, tu come la vivi? Pensi che lo faccia per mettersi nei panni nostri? A me non è mai successo, anzi mi ha sempre dato fastidio.
      Capisco il tuo "potrebbe essere un'occasione per conoscere qualcosa di un altro paese, per parlarne", ma per quello scopo ci sono tantissimi altri modi, molto più appropriati. Ad esempio, qui a Montreal le scuole fanno la giornata internazionale: ogni bambino si veste con abiti tradizionali (se ci sono) e porta a scuola cibo del suo paese di origine. Per i bambini è uno dei giorni più importanti dell'anno scolastico. Se davvero vogliamo conoscere un'altra cultura, un altro paese, chiediamo a chi viene da quel paese, non appropriamoci di quel che noi pensiamo faccia parte della loro cultura a nostro piacimento. Non per niente il fatto di travestirsi usando modi e abiti di un'altra tradizione, si chiama "appropriazione culturale".

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    2. Rispondo alla seconda domanda:
      non sono d'accordo. Se le persone che dicono "sei italiano, ma non del tutto" volessero dire che oltre ad essere italiano mio figlio, o Balotelli, hanno anche un bagaglio diverso, potrebbero benissimo dire "Sei italiano, ma non solo". Lì potrei anche accettarlo.
      No, io credo invece che il dire "sei italiano, ma non del tutto" voglia dire "Non puoi essere italiano e cinese, non puoi mica essere entrambe le cose, o sei uno o sei l'altro".
      Recentemente leggevo di una donna figlia di coppia birazziale e diceva una cosa illuminante: "Basta sentirmi dire che sono 50% bianca e 50% indiana. No, io sono 100% bianca e 100% indiana. Il fatto che io sia una cosa, non toglie nulla all'essere anche completamente l'altra. È così che io mi sento e non ne posso più dell'essere fatta a fette, come una torta". Applausi!
      E nella nostra piccola, e per ora precoce esperienza, è così che il Sig. Tenace si sente: completamente italiano. E speriamo anche completamente cinese e completamente canadese. Senza ma.

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    3. Grazie della tua risposta e delle spiegazioni. Il mio punto di vista e' che i travestimenti fatti dagli adulti e quelli dei bambini siano un po' diversi. Se una ragazza si veste con abiti indiani forse lo fa perche' con superficialita' crede siano belli, o per divertirsi, o per goliardia nel caso di un uomo travestito da donna. In tutti questi casi sarebbe opportuno e giusto evitare, soprattutto se c'e' fastidio dall'altra parte. Forse il paragone del marito violento e' esagerato, chi tira un calcio generalmente vuole ferire, chi si traveste puo' sbagliare o avere delle colpe, a volte puo' averla presa con ingiustificata leggerezza ed e' giusto farglielo notare. Secondo me (naturalmente mi posso sbagliare) il caso del carnevale dei bambini potrebbe essere diverso. Non ho figli ma ho lavorato molto con bambini di varie eta', e la mia impressione e' che scelgano un travestimento in base alle loro aspirazioni, sogni, o curiosita'. Mi pare piu' improbabile che scelgano un costume per goliardia o per ridere della confusione r/l o simili. E' vero che potrebbero esserci occasioni piu' appropriate per conoscere altre culture, ma nell'attesa che siano piu' diffuse anche in Italia si possono anche sfruttare altre occasioni con la sensibilita' del caso. E' vero che il rischio stereotipo e' dietro l'angolo, ma con il carnevale mi pare lo sia comunque, anche travestendosi da principessa o poliziotto. Forse qui un genitore o educatore attento possono fare la differenza quando si pensa al costume, come dici tu chiedendo all'amica che viene da un altro paese,o facendo una ricerca. Se poi qualcuno si offendera' se ne potra' anche parlare, e sara' un'occasione per capire meglio cosa non va.

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    4. Si hai ragione, dire "non sei del tutto italiano" e' diverso, e non va bene.
      Cercavo di capire cosa potesse intendere la nonna di tuo figlio nel dirlo. Penso sia molto diverso dagli insulti di quel tipo ricevuti da Balottelli. Non conosco la tua famiglia e non voglio trarre conclusioni che non mi spettano. Intendevo dire che se qualcuno che ti vuole bene usa una frase del genere forse dovremmo tutti insieme trovare parole migliori per poterne parlare. Non e' abbastanza ammonire dicendo "questo non si fa, cosi non si dice perche' a me da fastidio" (non sei tu a farlo eh, anzi, leggo volentieri il tuo blog proprio per il motivo opposto). Altrimenti diventa ancora piu' un tabu', se ne parla meno per non dire cose sbagliate, e il punto di vista dell'altro non lo si capisce. A volte secondo me frasi formulate in modo maldestro posso contenere dubbi, o incomprensioni. La sensazione di essere italiani, tedeschi, peruviani, sara' diversa anche in base a dove si e' nati, cresciuti, da dove vengono i nostri genitori biologici o adottivi. E' bello poter parlare di queste differenze e sfumature, non e' sempre facile trovare le parole per farlo. Dovremmo essere tutti uguali per i diritti che abbiamo, ma siamo anche tutti diversi per tante altre cose.

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    5. Cara Giulia,
      rispondo con un commento unico ai tuoi ultimi due perché noto in entrambi la stessa cosa, ovvero la tendenza a metterti nei panni di chi compie l'atto, e non di chi lo subisce. Mi riferisco in particolare all'attenzione che porti all'intento più che all'impatto di un'azione. Se ti metti nei panni di chi subisce un atto di razzismo o di discriminazione, capirai con il tempo che quel che conta è l'impatto, non l'intenzione. Per questo, che sia un bambino o un adulto a travestirsi secondo una cultura che non gli appartiene, conta poco. Sempre per questo, che uno dica una determinata frase perché è un ultra neofascista o la nonna amorevole di un bambino adottato, conta molto meno della frase stessa. Le giustificazioni non contano quando uno è ferito.
      Certo, noi abbiamo le nostre intenzioni a volte anche ottime, ma è questo il discomfort a cui mi riferivo: accettare che anche con le migliori intenzioni possiamo ferire, perché siamo ignoranti. Però una volta che lo impariamo, poi dobbiamo impegnarci a non farlo più, altrimenti c'è il dolo.
      Ti consiglio di cuore di seguire, se sei su fb, Aroti o Esperance. Leggere i loro post, senza commentare, solo stando in silenzio e registrando quel che loro dicono. Richiede un cambio completo di prospettiva, ma solo così si cambiano le cose. Auguri, a te e a noi tutti!

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    6. E' vero, mi sono concentrata su chi compie il gesto più che su chi lo subisce, e di sicuro ho tanto da imparare. Credo sia un tema molto complesso, ci ho pensato tanto nel week end dopo lo scambio di opinioni qui. Mi è venuto da domandarmi quale sia allora il comportamento giusto, rispetto al diritto di sentirsi offessi e al dovere di non offendere, in casi molto diversi. Ad esempio per persone che vogliono recitare preghiere diverse da quelle tradizionalmente usate in un certo paese, o coprirsi la testa in pubblico per il rispetto di una religione. Immagino che ci siano persone (spero sempre meno)che davvero si possono sentire offese, o spaventate (ma anche offese!) se qualcuno nel loro paese recita una preghiera diversa da quella che sono abituati a sentire, o entra in un certo luogo di culto della propria tradizione senza condividerne il credo. In questo caso quindi, come funziona? Per lo stesso ragionamento si può chiedere ad un musulmano o ad un cristiano di non pregare su un aereo, o in luogo pubblico, perchè chi è di un'altra cultura si potrebbe offendere? Mi rendo bene conto che siano esempi diversi, e che sia una provocazione. Però davanti a questi dilemmi mi trovo a disagio: come si valuta se l'offendersi di una persona è più meritovole di una cambiamento rispetto a quello di un'altra? A parte casi di aperta discriminazione o violenza, come possiamo giudicare motivazioni giuste o sbagliate se, come ricordi tu, solo chi si sente offeso può giudicare la legittimità del suo sentimento?
      Spero si capisca che non è mia intenzione fare polemica, ma ho trovato questo tema molto interessante e difficile per me. Leggerò senz'altro i profili consigliati, grazie del suggerimento!

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    7. Ciao Giulia! Sono Alice, e provo a risponderti io :) credo siano cose momto diverse: un musulmano che prega sta facendo qualcosa che appartiene alla sua cultura, quindi se a un cattolico dà fastidio, può voltarsi dall'altra. Non tra "offendendo" alcun cattolico, non si sta appropriando di elementi culturali cattolici, insomma, sta facendo la sua vita sereno, sta "essendo sé stesso". Se questo da fastidio, il fatto che un musulmano esista e preghi, è intolleranza. Altra cosa è se io, non musulmana, decido di portare il velo "perché mi piace come mi sta", o di fare il ramadan al posto della dieta perché devo dimagrire. In quel caso mi sto appropriando di qualcosa che appartiene ad un'altra cultura, in maniera tra l'altro superficiale e non rispettosa del vero senso e del valore di gesti o pratiche. Sto "prendendo roba che non è mia" perché
      mi oiace, e i wuanto bianca posso permettermelo Aggiungo ancora che c'è TANTISSIMA differenza tra il travestirsi da messicano con il sombrero, squaw, cinese, hawaiano, nero o da ebreo con la kippah.... e il travestirsi da francese con il cappellino e i baffi, o da donnina olandese con gli zoccoli in legno. Le prime sono culture e popolazioni che nel corso del tempo abbiamo sterminato e/o oppresso e/o discriminato e/o sfruttato. Le altre sono culture dominanti. Quindi, come "rule of thumbs" la domanda prima di scegliere un travestimento dovrebbe essere : "qualcuno con questo tipo di abbigliamento o caratterstica fisica è stato ucciso, discriminato, abusato proprio in quanto appartenente a questa cultura?" e la risposta è SÌ... evitamo il costume :)

      Alice chiacchieratrice

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    8. Ciao Alice! Si capisco la differenza, che sicuramente c'è ed è tanta. Penso comunque non sia facile discriminare tra un "offendersi legittimo" ed uno non legittimo o addirittura ingiusto. In alcuni casi lampanti è semplice, credo potrebbero esserci casi in cui non lo è, o in cui nessuno può arrogarsi il diritto di decidere chi ha ragione ad offendersi e chi no. Per questo credo che mantenere il dialogo aperto tra le due parti (certo facendo anche un passo indietro quando ci accorgiamo di offendere)sia davvero importante, senza zittire nessuno che si sforzi di spiegarsi in modo rispettoso.
      Grazie per la risposta :-)

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  9. Grazie di questo post, ho capito di essere ahimé anch'io razzista pur credendo e sentendomi tutt'altro. Purtroppo ci manca una cultura e ben vengano esempi di persone che tu citi. Il mio impegno è sempre stato quello di insegnare ai miei figli la cultura della diversità, però, leggendo il tuo post e ascoltando gli interventi di Esperance e igiana scebo ho capito che è molto difficile. È un impegno necessario. Grazie. Federica

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    1. Hai ragione, è un impegno difficile ma necessario. La presa di coscienza è il primo passo e poi mettiamoci in ascolto, stiamo zitti e apriamo le orecchie. In bocca al lupo con i tuoi figli!

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