Friday, February 28, 2014

Catherine e l'amica in comune

Oggi scrivo di Catherine.

Metà Catherine

Lei è la mia maestra di ceramica, mon professeur.
Da qualche tempo anche mia amica. Di quelle amicizie che hanno bisogno di tempo per diventare tali perché bisogna prendere le misure, ma quando poi capita sai che hai creato un legame vero.

La prima volta che ho visto Catherine era nel suo atelier-galleria nel 2010. Io ero arrivata a Montreal da poche ore, meno di 24, ed ero entrata nella galleria per comprarmi una tazza per fare colazione. Vista la mia passione per la ceramica da sempre, diciamo che ho trovato una scusa come un'altra per entrare. Al momento di pagare noto un volantino che indica l'inizio dei corsi di ceramica per principianti, da lì a poche settimane. Chiedo al tizio a cui stavo pagando, un ometto sorridente ma affettato, se ci fosse ancora posto, lui mi dice di sì e mi iscrive. In quel momento entra questa donna bionda, spettinata, con la faccia arrabbiata e un cane più grosso di me, letteralmente. L'uomo e la donna si scambiano due parole di un freddo gelido, poi lei va sul retro, nell'atelier. Lei è Catherine, lui è quello che da lì a pochi mesi sarebbe diventato il suo ex-marito.

Io ho iniziato il corso di ceramica e l'insegnante era proprio l'ometto. È stato un disastro; io ero completamente impedita, non capivo una mazza dell'accento quebecois dell'insegnante, non avevo forza nelle mani, tantomeno nelle braccia. Ma la passione per la ceramica era più forte e non avevo alcuna intenzione di rinunciare.
Catherine compariva di tanto in tanto. Di lei si diceva che fosse una ceramista eccezionale. L'uomo ci diceva di lasciarla in pace, che quando lei lavorava non voleva essere disturbata. In effetti il suo tornio stava sul retro-retro dell'atelier, al posto dello sgabello aveva una vecchia sedia di stile barocco damascata, e dietro allo schienale c'era appeso un foglio con scritto (in francese):

"Non disturbatemi nemmeno per un minuto.
NEMMENO PER UN MINUTO."

Diciamo non proprio incoraggiante. 
Eppure lei, all'epoca, creava cose come queste, che io trovavo semplicemente magnifiche. Così moderne nel loro sembrare antiche.

Ho poi scoperto di essere tra le poche ad apprezzare questa collezione; tutti la trovano "da nonna" che è proprio il motivo per cui io la trovo moderna...


Inutile dire che da subito ho avuto per lei un timore reverenziale. 

Finito il primo corso ho deciso di proseguire con il secondo. Con mia sorpresa la maestra era Catherine. E lì il timore reverenziale è diventata paura allo stato puro: oddio, adesso questa mi dice che faccio pena, che devo smettere perché non ho speranze, e sentirmelo dire da lei è terrrribbbile.
Niente di tutto ciò si è verificato. Da lì a qualche settimana  la temuta Catherine si è rivelata un'insegnante di buon cuore, ironica, capace di guidare chi stava imparando e io ho finalmente iniziato a creare robe tutto sommato decenti. Da lei ho imparato che la ceramica, come molte altre arti, può essere un po' scuola di vita.

E con il tempo siamo diventate amiche perché abbiamo almeno tre cose in comune:

1. gli stessi gusti artistici, che a quanto pare differiscono da quelli della maggioranza dei clienti della galleria, purtroppo per Catherine;

2. siamo antipatiche, e si sa che tra antipatici ci si sta simpatici;

3. l'amore viscerale per la porcellana.

Riguardo quest'ultimo, è stata Catherine, al terzo corso, osservandomi mentre cercavo di controllare quella fetente di una creta sul tornio, a dirmi: "Tu es une femme à porcelaine!" [sei una donna da porcellana!].
A quel punto è sparita ed è tornata con un pacco da 10 kg di porcellana.
"Tieni", mi ha detto, "Guarda che è come lavorare il cream cheese. Non ammette sbagli, mais je suis sûre que tu vas l'aimer'".

Non so perché, ma chi ama la porcellana tende a personificarla. Catherine dice di "essere in una relazione tumultuosa con la porcellana da quindici anni".
E io, quando l'ho usata per la prima volta, sono tornata a casa euforica e ho detto al Celiachindo: "Fedi, mi sono fatta una nuova amica! Indovina chi è?" E lui: "La gatta dei vicini?" (mio marito nutre profonda fiducia nelle mie capacità di socializzazione, per il punto 2 di cui sopra).

Casa nostra è piena di cose di Catherine. Soprattutto vasi.
Di questo qui sotto, ispirato alle forme dei palloncini, ne abbiamo due.

Una rosa è una rosa è una rosa.

Mesdames et messieurs, je vous ai presenté Catherine Auriol. 
Sentirete ancora parlare di lei; vedrete ancora sue cose.

Tutte le foto sono prese dal suo blog: http://catherineauriol.blogspot.ca/







Wednesday, February 26, 2014

Come ti elimino il tubero - cap. II

Al secondo capitolo del manuale "Come ti elimino il tubero" troviamo i ravioli di grano saraceno con sedano rapa e gorgonzola.
Ad una prima lettura, questo capitolo sembrerebbe produrre un problema in più, anziché risolvere quello preesistente. Ravioli? Senza glutine? Senza uovo? Mooolto difficile. Lacrime sul mattarello mooolto probabili.
Ma non lasciamoci trasportare dalle prime impressioni.
La realtà è che aiutano a consumare le giacenze di sedano rapa presenti nel frigo (ho scritto davvero "giacenze di sedano rapa"? Ma chi altro oltre a noi due può avere giacenze di sedano rapa nel frigo!?!) e aiutano pure a far pratica con la pasta fresca senza glutine. In pratica: due piccioni con una fava.
Il tutto in un'ora e mezza di lavoro, non di più.


Si inizia con la pasta:

75 g di farina di riso bruno
75 g di farina di grano saraceno
75 g di farina di tapioca (o arrowroot, o riso bianco)
un cucchiaino di psyllium husk adorato
120-150 ml di acqua

Si setacciano molto bene le farine con lo psyllium, quindi si aggiunge l'acqua. Partirei da 120 ml, per poi aggiungerne un altro po' solo se l'impasto risultasse troppo duro. Con le farine senza glutine ho imparato che bisogna dare tempo all'impasto di incorporare i liquidi, quindi conviene impastare per un po' prima di decidere di aggiungere altra acqua oltre ai 120 ml.
Alla fine l'impasto deve risultare morbido, elastico per quel che un impasto senza glutine possa esserlo, e setoso. Sì, setoso: è la caratteristica, a mio parere, degli impasti con farina di grano saraceno. Raggiungono quella "liscezza" in superficie che è una meraviglia. Io puntualmente chiamo il Celiachindo a mettere mano e sentire quanto è eccezionalmente liscia la palla di pasta finale: non ha mai il mio stesso entusiasmo, ma almeno finge.
Si fa una palla con l'impasto e la si mette a riposare per almeno una mezzora in un sacchetto di plastica per alimenti. Fase importantissima perché i liquidi e le farine si equilibrano davvero solo qui. Alla fine si vede la condensa sulla plastica, e io dico che è la pasta che respira...

In quella mezzoretta di riposo della pasta, ci si può:
a) rilassare assaggiando il vino di accompagnamento ai ravioli
b) riscaldare i muscoli per il mattarello
c) preparare il ripieno

Io per questioni di tempo scelgo c).

Per il ripieno:
mezzo sedano rapa canadese, le cui dimensioni sono più vicine a quelle di un melone che di un sedano rapa, o un sedano rapa normale
gorgonzola o formaggio erborinato

Si porta a ebollizione un po' di acqua in un pentolino, diciamo una tazza circa. Si sbuccia il sedano rapa e lo si taglia a cubetti. Si mette a cuocere il sedano rapa nell'acqua bollente, per circa 10 minuti o fino a quando si riesca a puntare bene la forchetta.
Si scola e si frulla con il formaggio. Io avrò usato circa 30-50 g di formaggio, perché è molto saporito. E non ho salato il sedano rapa. Impasto pronto.

Ed infine si formano i ravioli.


Il tirare la pasta è senza dubbio la parte più complicata. Senza uova l'impasto è già più duro e a me questa volta lo è sembrato particolarmente. O magari ero io un po' stanca.
Lo psyllium husk è stato miracoloso anche questa volta, dal momento che la sfoglia è risultata sufficientemente elastica da formare ravioli. Bisogna comunque manipolarla con cautela, perché è molto meno resistente di quella con glutine, e tende inoltre a seccarsi più facilmente. Per questo motivo consiglierei di coprirli con un panno umido o della plastica per alimenti se non si usano immediatamente.

Io li ho conditi solo con burro e salvia, ed erano perfetti. Il Celiachindo, futuro sommelier, ha abbinato un Terresomme Lago di Caldaro 2012, vino trentino prodotto da uve schiava.


Sunday, February 23, 2014

Il diamante o il castello

Avila - Source
È causa di non poca pena e vergogna il fatto che, per nostra colpa, non riusciamo a capire noi stessi né a sapere chi siamo. Non sarebbe forse segno di grande ignoranza, figlie mie, se qualcuno, richiesto della sua identità, non sapesse rispondere ne potesse dire chi è suo padre, sua madre, e il suo paese?
Se, dunque, ciò denuncia un'enorme ignoranza, la nostra, quando non cerchiamo di sapere chi siamo e ci fermiamo solo alla considerazione del nostro corpo è, senza confronto, maggiore.

Sì, sappiamo di avere un'anima, ma i beni che può racchiudere quest'anima o chi abita in essa, o il suo inestimabile pregio, son cose che consideriamo raramente.

Di conseguenza, ci si preoccupa poco di adoperarsi con ogni cura a conservarne la bellezza: tutta la nostra attenzione si volge sulla rozza incastonatura di questo diamante, o sul muro di cinta di questo castello, cioè il nostro corpo. 
                S. Teresa d'Avila, Il castello interiore, 1577 
(Trad. Letizia Falcone)



Friday, February 21, 2014

Come quando fuori piove


Piove su Montreal e la pioggia a fine febbraio può significare che forse - forse!- si sta per intravedere la fine dell'inverno. Per quest'affermazione verrò sicuramente punita con precipitazioni nevose di venti centimetri nei prossimi giorni, ma per il momento godiamoci l'illusione. D'altro canto oggi ho messo per la prima volta gli stivali di gomma anziché i winter boots, quindi un cambiamento concreto c'è stato.

Allora sono autorizzata a sognare un pochinino la primavera, ben cosciente che comunque prima di maggio non se ne parli?

Io sogno.

Sogno fiori. Sui vestiti. 

Antonio Marras PE 2014 - Vogue


Alberta Ferretti PE 2014 - Vogue

Sogno un cappuccino ai tavolini all'aperto del Montréal Café, con ancora addosso il piumino, ma anche gli occhiali da sole.



Sogno il paniere di verdure con il fleur d'ail al posto dei tuberi.


E sogno il Celiachindo che mi chiama al lavoro per dirmi: "A che ora esci? Vengo ad aspettarti e torniamo a casa a piedi!". E sulla strada verso casa ci fermiamo di sicuro a bere qualcosa su St. Denis o Duluth.


Intanto fuori piove ancora. E ho visto anche gente senza guanti...

Wednesday, February 19, 2014

Terracotta Daughters

Ma quanto bello è scoprire per caso un artista e trovarsi subito meravigliati per le sue opere che vanno dritte al sistema limbico cuore?

Source

Stavo sfogliando il numero di febbraio di Marie Claire Italia*, comprato in aeroporto prima del volo di ritorno a Montreal, e lo sguarde mi è caduto su una piccola immagine di queste Terracotta Daughters. La breve didascalia alla foto diceva che l'autrice è Prune Nourry e che saranno in mostra a Parigi, alla Magda Danysz Gallery a marzo.

Intrigata, vado sul sito di Prune Nourry.

Le Terracotta Daughters nascono dal pensiero alle molte bambine cinesi che hanno subito la cultura cinese del controllo demografico, questione che prima di essere politica è culturale, come spiega bene questo bel video.


E quindi, come già visto fare da Ai Weiwei per i suoi semi di girasole, Prune Nourry va in Cina a recuperare quella millenaria tradizione di argilla e ceramica (devo dirlo quanto mi piace l'incontro tra tradizione e contemporaneità?! Moltissimo!). Incontra otto bambine orfane, e le usa come modelle.

Source - Photo by Zachary Bako


Source - Photo by Zachary Bako

Ed ecco che nascono loro: un esercito di 116 bambine di terracotta. 

Source - Photo by Prune Nourry

L'incontro tra Prune Nourry e le otto bambine non si ferma qui. L'artista si impegna a finanziare gli studi delle bambine per almeno tre anni, e loro sono invitate alla mostra a Pechino per poter incontrare la propria sosia in creta.


Sul sito di Prune Nourry scopro che mi piace praticamente tutto quello che fa. Soprattutto mi piace la sua attenzione ai temi di bioetica e ad un'immagine inusuale della donna (tra l'altro, ho trovato un'altra signora di ceramica che fa il bagno nel bianco). Ma questo lo racconterò poi.


* Fonti di documentazione artistica autorevoli, lo so.

Sunday, February 16, 2014

Altri arrivi e partenze


Come si fa a dire addio? Come?
Sono tornata di corsa per salutare il nonno, viaggiando con il timore di non arrivare in tempo per farlo, e adesso mi ritrovo al momento di ripartire  e a dovergli dire ciao sapendo che sarà l’ultimo.

Ho sempre detto che gli arrivi e le partenze servono a darmi la misura degli affetti.
Ma questa volta è di più.

Sai che la sofferenza d’amore
non si cura
se non con la presenza e la Sua figura

Come un bambino stanco ora voglio riposare
e lascio la mia vita a te.
                                     Giuni Russo e San Giovanni della Croce



Wednesday, February 12, 2014

Stormi


Questa mattina ero al solito seminario del mercoledì, che oggi trattava di circuiti neuronali. Pare, infatti, che nelle neuroscienze cognitive vada molto l'argomento di come i neuroni si organizzino in network. 


Chi presentava ha mostrato ad un certo punto questo video di uno stormo di uccelli, credo siano storni, che volano in gruppo per disorientare il predatore. Quando il falco arriva, gli storni cambiano direzione rapidamente, ma non si disperdono. 

Il fatto interessante è che sembra che non ci sia un “capo” a comandare i cambi di direzione, ma che ogni uccello sappia dove andare sulla base di quel che fanno i sette uccelli a lui vicino. In pratica, il comportamento di uno stormo può essere paragonabile a quello di un network. In particolare, alcuni sostengono che i neuroni deputati a funzioni cognitive complesse si possano comportare all'incirca allo stesso modo di uno stormo di uccelli.


Interessante.


La discussione si è animata e ognuno diceva la sua in termini entusiastici.

Io, che sono una semplice e mi occupo di funzioni ben più umili di quelle cognitive, ascoltavo affascinata, guardavo rapita le immagini e alla fine sono giunta alla mia personale conclusione molto scientifica: questo video è una figata!


Sunday, February 9, 2014

La sovranità del vuoto


La solitude seule nous délivre. Elle nous est donnée par l'amour et se confonde avec lui. La solitude épure la vue. Elle nous dit que nos jours passent plus vite que le vent sur les eaux, que notre âme est plus pauvre que l'ombre sur la terre. La solitude nous emmène vers la plus simple lumière: nous ne connaitrons jamais d'autre perfection que celle du manque. Nous n'éprouverons jamais d'autre plénitude que celle du vide, et l'amour qui nous dépouille de tout est celui qui nous prodigue le plus.
                         Christian Bobin, La souveraineté du vide. Lettres d'or.


Solo la solitudine ci libera. Essa ci è data attraverso l'amore, e con esso si confonde. La solitudine rischiara la vista. Ci dice che i nostri giorni passano più veloci che il vento sulle acque, e che la nostra anima è più povera dell'ombra sul terreno. La solitudine ci porta verso la luce più semplice: non conosceremo mai altra perfezione che quella della mancanza. Non proveremo mai altra pienezza se non quella del vuoto, e l'amore che ci spoglia di tutto è quello che ci dona di più.

[Traduzione, penosa, mia. Se qualcuno avesse una traduzione autorevole in italiano di questo brano, che da qui non riesco a trovare, può fornirmela, per favore? So che il libro è stato tradotto con il titolo "Elogio del nulla". Merci!]

Saturday, February 8, 2014

Farinata a colazione

Dopo aver pensato a quanto è meravigliosa la focaccia a colazione, me n'è venuta una tale voglia che ho voluto in qualche modo rimediare. Di focacce senza glutine buone, per ora, qui a casa nostra non se ne sono ancora viste. Devo ancora azzeccare il buon miscuglio di farine. 

Però la farinata...
Perché non la farinata a colazione?

 

L'ho preparata alla sera, seguendo la ricetta più tipica che ho trovato in rete, questa qui.
Quindi:
300 g di farina di ceci
900 g di acqua
olio extra vergine di oliva
sale, pepe
Si mescola la farina con l'acqua, si aggiunge il sale e il pepe e, io, un cucchiaio di olio (modifica rispetto alla ricetta originale). Ho anche aggiunto un rametto di rosmarino, per insaporire e dare un profumo particolare, da togliere prima della cottura. L'impasto è molto liquido. Si copre e si lascia riposare qualche ora. Io avevo tempi abbastanza ristretti, quindi non l'ho fatto riposare più di un'ora e mezza.

E poi viene il difficile, almeno per me e per quelle due teglie da pizza fetenti che al momento dell'acquisto erano perfette e poi si sono stortate tutte. In teoria tutto sarebbe semplice: si versa il composto in due teglie da pizza oliate, con la tecnica ben spiegata da Melagranata, e si mette a cuocere in forno a 250° C per 10-15 minuti.

Sì, ciao belli. Le mie teglie son già inclinate di loro, non si capisce bene per qual motivo. Non bastasse, i pavimenti delle case di Montreal del Plateau sono tutti più inclinati delle teglie. E se ne capisce ancora meno il motivo. Tanto per dire, se cade qualcosa sul pavimento a casa nostra, si sa sempre da che lato della stanza andare a cercarlo...
Comunque, io verso il composto nelle teglie e le metto in forno e ovviamente il risultato ottenuto è stato un bel piano inclinato di farinata. Non l'ho fotografato, anche perché ero troppo impegnata a dire male parole contro teglie e pavimenti. 

Quando la calma è tornata nel mio animo e quando ho smesso di imprecare contro il sistema, la "farinata inclinata" si era ormai raffreddata. L'ho tagliata a quadretti e riposta nel forno spento.

Scaldata al mattino nel tostapane, con sopra una macinata di sale e pepe freschi, e accompagnata  da un buon caffelatte, la farinata è riuscita nell'opera di rappacificazione tra me e le "storture" del mondo...


Tuesday, February 4, 2014

Just a spoonful of sugar, ehm avocado, ...

Questa ricetta contribuisce alla soluzione del problema "Tuberi in inverno" che, per chi non lo conoscesse, appartiene alla stessa famiglia di "Peli superflui" e "Chili in eccesso". In altre parole, smaltimento di robe non troppo amate, ma inevitabili.

I tuberi - barbabietole, rape, topinambour, patate, radici in genere - sono infatti inevitabili almeno per chi come noi è socio di un'azienda agricola biologica e biodinamica della campagna quebecchese. 

Si dà il caso infatti che il Celiachindo ed io siamo arrivati qui in Canada animati dal proposito di mantenere fede al principio "Consapevolezza alimentare sempre; km zero quando si può". Facile in Italia dove abbondano verdure e legumi di ogni genere in ogni stagione. Più difficile a Montreal, dove un candido manto di neve e temperature quasi polari rendono il terreno un perfetto frigorifero, poco incline però alle coltivazioni, se non appunto quelle sotto terra. 
E così partenaires dell'azienda agricola, ci siamo trovati inaspettatamente (ok, sì, siamo ben ingenui) di fronte a panieri invernali bisettimanali di radici e poco altro. I montrealesi son felici, noi più o meno. 


In aiuto della povera coppia sepolta sotto pastinaca, radici daikon e barbabietole, giunse la cara Salpy, signora armena che lavora con me in ospedale e con cui ci scambiamo spesso ricette. Una delle sue ricette salva inverno è stata questa insalata di barbabietole e avocado. Meravigliosa e semplice, come molte cose meravigliose.

Presto fatto, si prendono barbabietole e avocado in quantità all'incirca uguali. Io di solito per due persone uso due grosse barbabietole e due avocado.
Si sbucciano le barbabietole, nel farlo ci si sporca per bene le mani di fucsia con il loro succo - fighissimo!-, si tagliano a cubetti, e si mettono a cuocere. Io le faccio al vapore perché si riempiono meno d'acqua, ma si possono anche bollire (in questo caso suggerirei di lasciarle intere).
Una volta cotte, si aspetta che si raffreddino. Nel frattempo si sbucciano gli avocado maturi. Si tagliano anch'essi a cubetti della stessa dimensione delle barbabietole. Si uniscono i due, e già si osserva la meraviglia dell'accostamento cromatico che a me piace da impazzire!
La saggia Salpy raccomanda di condirli con olio, sale, aceto di vino bianco e abbondante origano. E io così faccio: sia mai che non segua i suoi consigli culinari.


Suggerimento: ottima a cena, è ancora più buona il giorno dopo, quindi si presta perfettamente a essere portata a pranzo al lavoro. Noi l'abbiamo fatta ieri sera, era avanzata solo la porzione per una persona e, da buoni coniugi, ce la siamo litigata (Celiachindo: "Tesoro mio, prendi pure la pasta, che io mi porto l'insalata!", io: "Ma no, Celiachindo caro, prendi tu la pasta che devi ingrassare! L'insalata la prendo io!" Alla fine ha vinto lui...).


P.S. lo so che gli avocado non sono propriamente a km zero, ma qualche compromesso bisogna pur accettarlo ogni tanto. Gli avocado sono per noi quel "spoonful of sugar" che "helps the roots go down" nel frigorifero perché è martedì e tra due giorni arriva un nuovo paniere!

Saturday, February 1, 2014

Get lucky

Una cena di Dipartimento di inizio anno al Faculty Club della McGill può voler dire trovarsi seduti al tavolo con la collega e amica colombiana, la receptionista ivoriana, il nuovo impiegato greco, quella bosniaca e, ah sì, due canadesi.

Può voler dire che, mentre si chiacchiera tra una portata e l'altra, il dj italo-canadese, che per l'occasione ha voluto sfoggiare la tuta della nazionale italiana di calcio, metta come sottofondo musicale Ti amo di Umberto Tozzi e poi anche La mazurka di periferia. Tra l'altro resta da capire come il suddetto dj sia riuscito ad entrare al faculty club in tuta, visto il rigoroso dress code del posto, ma sorvoliamo.

Può anche voler dire trovare finalmente il tempo di parlare un po' di più con Juri, ingegnere ucraino che però qui fa il tecnico di radiologia, che aspetta il passaporto canadese per rinunciare a quello ucraino. E trovarsi a riflettere sulla sua risposta alla mia domanda se non gli spiaccia rinunciare alla cittadinanza ucraina: "Not that much, when you realize that you feel safe everywhere in the world except in your home country". 

Poi, finita la cena e finiti i discorsi di ringraziamento della primaria bolognese per l'anno passato, si abbassano le luci e la gente si scatena. Io resto sempre un po' perplessa di come si possa riuscire a lasciarsi andare in balli da discoteca con le stesse persone con cui ci sono rapporti di lavoro piuttosto formali, soprattutto qui in Canada, comunque io di sicuro non mi tiro indietro se c'è da ballare...

Ad una cena così, può benissimo capitare che il solito dj in tuta ad un certo punto metta un sirtaki remixato (velo pietoso sui gusti del dj) al quale, l'impiegato greco del front-desk si toglie la giacca con gesto teatrale, la getta sul pavimento e inizia a ballare il sirtaki. E tutte le altre quaranta persone attorno in cerchio a battere le mani a ritmo. Tutte tranne la primaria che riprende la danza con l'IPhone. Io la guardo e capisco che non bastano 25 anni qui da immigrata per smettere di sbalordirsi di quel che Montreal possa offrirti.

Alla cena di Dipartimento si ha invece la certezza matematica che alle 23.25 il medico canadese ottantenne dirà "Ballo solo tre canzoni poi vado a casa" e 45 minuti dopo sia ancora lì in pista a ballare YMCA e a ripetere "No, questa è davvero l'ultima". Cinque "ultime" dopo abbraccia, bacia e va davvero a casa.

E mentre il dj mette finalmente i Daft Punk, io ballo e per la prima volta in tre anni e mezzo conto quante nazionalità diverse ci siano dove lavoro.
Ne conto dieci solo tra i presenti.
In rigoroso ordine alfabetico: Algeria, Arabia Saudita, Armenia, Bosnia, Canada, Colombia, Costa d'Avorio, Grecia, Italia, Ucraina. Mancano almeno India e Corea. Senza poi contare le origini di quelli con passaporto canadese, ma lì si rischia di non finire più.

E per l'ennesima volta mi sento fortunata.