Wednesday, December 18, 2019

Urlare il dolore

Ieri, come molti purtroppo, ho letto la notizia della donna di 22 anni, nigeriana, e del suo dolore urlato di fronte alla morte della figlia di cinque mesi all'ospedale di Sondrio.
Non sto qui a dilungarmi su quel che è successo dopo tra gli altri utenti presenti in ospedale. Lamentele, insulti. Pare che un totale di 15 persone - quindici - abbiano trovato opportuno esternare la loro insofferenza verso questa donna e l'espressione del suo dolore.

Amy Sherald. Mother and Child. 2016

Sui social media ho letto la reazione immediata di scandalo di tanti, tantissimi.
"È una vergogna", "Non ci sono più limiti in questa Italia! Adesso si insultano anche le madri a cui muore un figlio!", "Ma dov'è la pietà? La compassione?"
Ma a cosa serve quello scandalo? A cosa serve quella presa di distanza da certi comportamenti palesemente inaccettabili?
Non a molto altro se non a sentirsi giusti. A rassicurarsi sul fatto che noi, quella roba lì, mai la faremmo. Che noi in quella situazione ci saremmo comportati in maniera diversa. Che c'è un noi - persone non razziste - e un loro - razzisti senza cuore. A sentirsi un po' il fariseo di quella parabola che stando ritto in prima fila ringrazia il suo dio di non essere un peccatore sfigato e ignorante.

E se invece facessimo un passo oltre nell'analisi di questa vicenda?
Se invece di fermarci agli insulti pronunciati da alcuni, non riflettessimo su come in fondo questa reazione non è poi così sorprendente ed è forse solo la punta visibile di un immenso iceberg in cui le persone non bianche vengono trattate diversamente quando soffrono?
Se ascoltassimo le parole del Direttore del Pronto Soccorso di Sondrio che ammette che alla comunicazione del decesso
"Si è scatenata una reazione a cui non siamo abituati dal punto di vista culturale... (li abbiamo) lasciati scaricare un attimo... sono intervenuto sull'accompagnatrice che era la più agitata, sono riuscito a fermare un attimo l'emozionalità (?), si son calmate"
Queste sono le parole che a me hanno colpito di più, perché diciamocelo: queste potrebbero essere pronunciate da molte più persone. Prendere le distanze da queste è un filo più difficile.
"Lasciati scaricare un attimo"?! Ma sono l'unica a sentire qui una mancanza di compassione?
Se capitasse mai a me una cosa simile, vorrei che queste parole fossero pronunciate dal medico che mi comunica la notizia?!
Perché quella reazione di dolore ha dovuto essere fermata?
Solo perché non appartiene alla nostra cultura?
Perché anziché fermarla non si è accompagnata la donna in una stanza appartata in cui sfogare il proprio dolore?
Avrebbero fermato allo stesso modo lo strazio di una mamma bianca brianzola o forse con lei l'empatia sarebbe stata maggiore, perché culturalmente ci è più familiare?

Queste parole mi hanno venire in mente molte altre cose che conosco bene e che sono ghiaccio solido alla base di quell'iceberg di cui sopra:


  • Gli infermieri e i medici che non ricordano il nome e cognome dei pazienti non bianchi ("Dottoressa ha un nome cinese, vorrà mica che me lo ricordi?" Sì, minchia, sì).
  • Il tecnico di radiologia che nell'aiutare il paziente nero con dolore lombare a salire sul lettino della risonanza magnetica al verso di dolore di questi non chiede scusa, come invece non perderebbe attimo di fare se il paziente fosse bianco.
  • I medici che non hanno la stessa urgenza nel non far attendere troppo i pazienti in sala di attesa se questi non sono bianchi.
  • Il mio collega, che si dice di ampie vedute ma che appena un paziente con emicrania è nativo mette subito in dubbio che faccia abuso di alcool o droghe e, anche quando questo nega, dice "Con loro non si sa mai, magari non lo dice, ma..."
  • La mia amica senegalese che, incinta di 34 settimane e con nausea importante da due giorni, è stata rimandata a casa dal pronto soccorso per ben due volte, facendosi dire che forse esagerava con i sintomi. Era in pre-eclampsia. Ha partorito in urgenza il giorno dopo e per pochissimo non ci lasciava le penne.
  • Sempre la mia amica senegalese che qualche mese fa ha chiesto al suo medico di base di poter fare qualche esame perché troppo stanca (è una forza della natura, lei, chi la conosce lo sa). Il medico le ha detto di cercare di riposarsi. Poi un giorno è svenuta al lavoro. Aveva 8 di emoglobina. L'hanno trasfusa. 
  • La mamma nera con lattante in braccio, seduta di fianco a me al pronto soccorso, che aveva aspettato 11 ore senza che nessuno le desse una spiegazione e lei era rassegnata a non chiederne. Io che le dico "Vada a chiedere! Non è normale!" e lei che mi guarda e io capisco che quel suo sguardo dice "Tu puoi, tu sei bianca, tu puoi farti valere. Ti ascoltano in modo diverso". E ha ragione. (Poi per la cronaca è andata a bussare alla porta del triage).


E se gli episodi raccontati in modo aneddotico non sono abbastanza, so anche altro:

  • Il dolore viene trattato in modo diverso dal personale sanitario a seconda dell'appartenenza o meno del paziente ad una minoranza etnica. Non vengono, almeno non ancora, considerate le differenze culturali. Ad esempio, gli asiatici tendono ad esternare molto meno il dolore, sia fisico che psichico. Di conseguenza il sintomo non viene considerato adeguatamente ed è sottoposto a trattamento meno di frequente. Altre culture manifestano il dolore in modo molto più drammatico degli occidentali. I pazienti vengono di conseguenza considerati "esagerati" o come si è visto a Sondrio si crede talvolta che faccia parte di una tradizione. Si ha quindi la tendenza a trattarli meno. In sostanza, il messaggio è: se non soffri nello stesso modo in cui soffro io, non riesco ad immedesimarmi in te e alla fine non considero adeguatamente il tuo dolore. Si parla di racial bias implicito e inconscio. Ma pur sempre presente e che ha un impatto enorme. Enorme.
  • Per buttare lì qualche numero, negli Usa nel 2009, i pazienti ispanici avevano un rischio due volte maggiore (55% rispetto a 26%) di non ricevere alcun trattamento antidolorifico rispetto ai pazienti bianchi.
  • Ai pazienti neri con insufficienza cardiaca viene proposto meno il trapianto di cuore rispetto ai bianchi. Questo perché la decisione terapeutica si basa molto sulla discussione con il paziente e il medico, se bianco, tende a parlare meno e meno a lungo con pazienti non bianchi.
  • Negli Usa, la mortalità legata alla gravidanza è circa 3 volte maggiore nelle donne nere e circa 2 volte superiore nelle donne ispaniche rispetto alle donne bianche. Questo per la differenza di accesso a cure di qualità, relazione con il medico, presa in carico inadeguata dei sintomi. E qui ci si spiega l'esperienza della mia amica. 
Tornando all'inizio di questo post e per chiudere il cerchio, come dice un articolo scientifico recente
"queste ineguaglianze sono una manifestazione chiara di razzismo strutturale, una forma di razzismo che manca di un perpetratore identificabile, ma che è invece la codifica e la legalizzazione della inequa distribuzione di risorse e opportunità alla cui base c'è una gerarchia razziale radicata".
O, in parole più terra terra. Facile prendere le distanze da chi urla "fatela smettere" alla madre nigeriana. L'ha fatto anche la Meloni, ed è tutto dire. Meno facile è guardarsi dentro, noi tutti, soprattutto chi lavora in ambito sanitario e sociale, e scandagliare ogni nostro piccolo bias, ogni nostro pregiudizio implicito e inconscio, per eradicarlo e contribuire, piano piano, un passo alla volta, ad una società più equa. 



Precisazione
Gli studi purtroppo fanno riferimento alla realtà americana, perché ho cercato se esistessero dati relativi all'Italia ma non ho trovato nulla. Questo la dice lunga su quanto una riflessione sulla questione manchi e sia sempre più necessaria nel nostro bel paese. Se chi legge dovesse essere a conoscenza di studi, testi, articoli in materia sulla realtà italiana, li aggiunga qui sotto o me li mandi! Sono davvero curiosa ed interessata a leggerli. Grazie in anticipo.



Referenze:
-Anderson KO et al. Racial and Ethnic disparities in pain: causes and consequences of unequal care. The Journal of Pain (2009)
-Petersen EE et al. Racial/Ethnic disparities in pregnancy-related deaths - United States, 2007-2016. MMWR Morb Mortal Wkly Rep (2019)
-Handerman RR et al. Applying a critical race lens to relationship-centered care in pregnancy and childbirth: an antidote to structural racism. Birth (2019)

Wednesday, November 27, 2019

I fratelli Fan e la balena

Già il titolo del post potrebbe sembrare una fiaba, e di questo sto per parlare.
Di libri con fiabe bellissime.

Ho già avuto in passato innamoramenti letterari per alcuni autori di albi illustrati. Alcuni me li porto dietro da più di vent'anni (Lisbeth Zwerger, oh Lisbeth Zwerger!), altri come il "signor Oliver" (il sig. Tenace lo chiama così, è un bambino educato) sono più recenti.
L'ultimo è recentissimo, meno di un anno. Si chiamano Terri e Eric Fan, meglio noti come i Fan Brothers.
Galeotti furono i due libri regalati dalla marraine francese del Sig. Tenace a quest'ultimo. Che mica li scegliamo male, noi i padrini e le madrine! Ci aveva visto lungo, e infatti il Sig. Tenace ha immerso il naso in The night gardener ("Il Giardiniere notturno" nella versione italiana edita da Gallucci) e non l'ha più dimenticato. Poi ha sfogliato Ocean meets sky (it."Dove il mare incontra il cielo", sempre Gallucci) e l'ha colpito così tanto che ne ha stracciato una pagina. Mai capitato prima.

Io e il mio piccolo lettore siamo stati folgorati da illustrazioni che sono magnifiche, un misto di realistico e fantastico. I personaggi e le storie avevano sempre sullo sfondo un non so che, un immaginario familiare per me e soprattutto per il Sig. Tenace. Niente di dichiarato, ma un qualcosa di imprescidibile, essenziale.
Vediamo se lo notate anche voi che passate di qui:









Penso si sia capito.
I fratelli Fan sono canadesi, di origine cinese da parte di padre e nel loro immaginario la Cina è presente in modo inevitabile, tuttavia non protagonista. Esattamente come nelle loro vite.
Questo è il motivo, credo, per cui il Sig. Tenace ne è rimasto sconvolto ed affascinato allo stesso tempo. Ed io di rimbalzo.

Quando cerchiamo libri per bambini con protagonisti asiatici, e li cerchiamo di continuo perché ce ne sono pochi, troviamo per lo più libri ambientati in Asia, con storie tipicamente, e a volte purtroppo stereotipicamente, asiatiche. La bambina che festeggia il capodanno cinese, il bambino che ha i genitori che lavorano nei campi di riso, la famiglia che va a mangiare il dim sum la domenica,...

Il Sig. Tenace li legge, gli piacciono anche, ma vede una distanza rispetto alla propria esperienza. Non lo riguardano così da vicino.
I libri dei fratelli Fan invece lo toccano. La Cina è lì, dentro di loro, ed esce nel raccontare storie ambientate dall'altra parte del mondo. Tra i personaggi ci sono bianchi e ci sono asiatici. Ci sono scoiattoli e ci sono carpe. C'è le neve e ci sono le lanterne. Ci sono nonni che guardano dal cielo perché lontani e mamme che abbracciano i bambini che hanno sognato i nonni lontani.

E fu così che quando ci siamo trasferiti nella casa nuova, che ha un'enorme scala tutta bianca, con muri bianchi, abbiamo deciso di metterci un pezzetto dei fratelli Fan ed accogliere lei:


La balena bianca veglia su di noi, è il nostro cane da guardia. La SignoRina la saluta quando scende le scale al mattino appena sveglia, il Sig. Tenace mi chiede ripetutamente se secondo me, poi alla fine, la balena colpisce la nave o no.



Speranza in un post precedente mi chiedeva indicazioni su libri per bambini un po' più diverse, ovvero con protagonisti non tipicamente bianchi come capita nel 90% dei libri per l'infanzia. Inizio da loro, perché non potrebbe essere altrimenti e perché penso che i bambini di tutto il mondo si possano perdere tra i loro disegni. 
Sta per arrivare Natale e se non sapete cosa regalare a dei bambini, o anche adulti, attorno a voi questi libri potrebbero essere una buona opzione per rendere le nostre biblioteche familiari un po' meno uniformi in quanto a rappresentazione.


Tuesday, November 19, 2019

La rabbia e la speranza

Ho conosciuto una persona che mi ha folgorato. Purtroppo, almeno per ora, l'ho conosciuta solo tramite i social network, ma chissà...
Parlo di Esperance H. Ripanti.



Un giorno il mio amico Kim Soo-Bok Cimaschi (adottivo italiano di origine sudcoreana, direttore della rivista AdopNation) mi invitato a seguire la pagina di Esperance su facebook, così senza neanche dirmi perché. Non che mi ci volesse molto a capirlo: italiana, nera, adottata.
E anch'io, senza neanche ringraziarlo, ho iniziato a seguirla. Con lui spesso è così, ci mandiamo riferimenti, contatti, e bon, ci si capisce. E infatti sono bastati due post per capire che era rivoluzionaria, almeno per la realtà italiana, e che l'avrei amata visceralmente.

Un po' ne ho parlato su questo blog, ma sempre troppo poco per i miei gusti, di una questione che mi sta veramente a cuore, ovvero gli italiani e il razzismo. E qui di solito c'è già gente che storce il naso.
Qualcuno già dice "ma gli Italiani non sono razzisti" o, altra faccia della stessa medaglia, "non siamo mica tutti razzisti". 
Sì. Lo siamo.
E non vogliamo rendercene conto. Non vogliamo sentircelo dire.
Il problema è che in Italia si è così indietro, ma così indietro sull'idea di una società multirazziale e multiculturale, che ci manca ancora la consapevolezza, ci mancano le basi per analizzare il problema.
Chiarisco subito un punto fondamentale. Non è che io ne sia immune, anzi. Io sono razzista come gli altri. Solo che ho avuto il puro culo di trovarmi a vivere da nove anni in un paese che me l'ha fatto capire. Il Teodolindo ed io a stare a Montreal abbiamo imparato che siamo razzisti, come lo sono gli italiani. Ma abbiamo anche imparato che, come dice Maya Angelou:


Quindi:
1. apertura degli occhi: "Oh cazzo, vuoi vedere che sono razzista? Io?!"
2. sconforto, smarrimento
3. reazione: "Ok, e adesso che lo so? Cerco di fare meglio, e soprattutto ci faccio attenzione"

Il punto è che avendo un figlio italiano appartenente ad una minoranza visibile questo processo ha assunto caratteri di urgenza. Mentre io, bella immersa e comoda nel mio privilegio di persona bianca, potrei anche prendermi tutto il tempo per cambiare il mio essere razzista, il Sig. Tenace vive sulla sua pelle, letteralmente, quella lacuna enorme della società italiana e mi obbliga - grazie! - a muovere il culo, perché io devo cambiare, le cose devono cambiare, adesso.
Quando qualche giorno fa l'ultrà del Verona ha detto di Balotelli (toh, un altro italiano nero adottato!) che "Lui non sarà mai totalmente italiano", io ho ringraziato che il Sig. Tenace non leggesse i quotidiani, ma quelle parole sono risuonate così familiari, ma così familiari! E dire, io non conosco neppure un ultrà e non ho amicizie nel mondo dell'estrema destra, ma quella frase lì "Ah, sì, il Sig. Tenace è italiano, ma non è italiano. Capisci cosa voglio dire?" me la sono sentita dire troppe volte. In primis da mia madre, alla quale se provo a dire "Ti rendi conto che hai detto una roba davvero razzista?"
mi risponde "Chi io? Ma no! Oh come sei suscettibile". 
O l'anno scorso quando ho fatto notare ad un mio contatto facebook che no, vestirsi da "orientale" (per inciso, si dice asiatico, orientale sono i tappeti) a carnevale non si fa, che la cultura altrui non è un costume, mi sono sentita dire "Va bè, ma allora non si può più travestirsi da niente!".
Di questo sto parlando, non dell'insulto "n**ro di merda" che siamo tutti capaci ad identificare come sbagliato.

Seconda rivelazione: non sta a noi decidere cosa sia razzista o no. Se una persona appartenente ad una minoranza visibile, o uno straniero, ci dicono che certi comportamenti, certe parole, sono razziste, facciamocene una ragione. Sit with your discomfort, dicono qui, stiamo zitti e impariamo. 

Perché tutta 'sta premessa fiume per parlare di Esperance?

Perché da anni il Teodolindo ed io viviamo con un senso di frustrazione immane, che spesso si trasforma in rabbia. Vorremmo che gli italiani capissero come sta messa l'Italia, che chi fa paura non è solo Salvini, ma sono anche quelli che si tingono la faccia di nero, quindi con un gesto di per sé storicamente razzista, per protestare contro il razzismo e si mettono la maglietta "L'unica razza che conosco è quella umana!" (ci credo, sei bianco! Vallo a dire agli italiani neri che le razze non esistono...). 
La soluzione, una delle soluzioni almeno, è dare più voce e visibilità agli italiani non bianchi. E allora ogni volta che una di quelle voci emerge, io vorrei far loro da amplificatore:

Kim Soo-Bok Cimaschi e Laura Pensini



Igiaba Scego



E Esperance H. Ripanti.



La missione di Esperance, per sua stessa definizione, è di cambiare la voce della narrazione. Lei vuole raccontare storie di italiani come lei, perché ce n'è bisogno. Perché i bambini italiani neri, le ragazzine italiane nere hanno bisogno di storie con personaggi in cui possano identificarsi. 
Il Sig. Tenace ha bisogno di storie, di personaggi -italiani! - con i suoi tratti somatici. Altrimenti si sentirà sempre uno straniero. Altrimenti si sentirà sempre "Italiano, ma non completamente italiano". 

Esperance parla senza mezze misure. Dice chiaro e tondo che lei non deve essere riconoscente a nessuno. Né ai suoi genitori adottivi, né ad un paese che l'ha "accolta". Perché il concetto di riconoscenza prevede un rapporto di inferiorità, non di uguaglianza. 
Dice chiaramente che gli italiani sono razzisti, e quelli che vanno in Africa e si fanno le foto con i bambini neri e poi le mettono su facebook, lo sono anche più degli altri perché partono dalle migliori intenzioni possibili. Oh, scandalo!

Come dice Esperance, avere il coraggio di dire le cose, di chiamarle con il loro nome, le fa diventare reali. E allora ci si può lavorare su e si può sperare nel cambiamento.

La rabbia che diventa speranza. 

Se ancora non conoscete Esperance e la volete conoscere:
-ha appena scritto un libro


-è stata intervistata dalla Bignardi (link);
-è in questo podcast illuminante;
-e per gli amanti dei libri, ha pure un suo podcast che si intitola Bookcrossing.

Oppure fate come me e seguite la sua pagina facebook e il suo profilo instagram.









Monday, November 4, 2019

Micropost #1 - fingere

Ieri è stata una giornata difficile. 
Il Sig. Tenace era particolarmente nervoso perché da qualche tempo la sua consapevolezza dell'adozione è cambiata e, avendo lui solo sei anni, non è che si sieda sul divano a condividere con me i suoi pensieri. Diciamo piuttosto che li agisce, quei pensieri. 

Stanotte è stata una notte difficile. 
La SignoRina non ha dormito. Sai che novità, dirà chi ci conosce. Sì, niente di nuovo, ma è stata sveglia per due ore nette tra le tre e le cinque del mattino. E anche se il Teodolindo ed io siamo abituati a non dormire da due anni, ad un certo punto ci rompiamo le palle anche noi. 
(Per inciso, ieri sera andando noi a dormire, entrambi medici, ci dicevamo: "Ti rendi conto che è come se fossimo di guardia ogni notte da due anni!? È illegale.")

Stamattina mi sono vestita cercando di farmi carina, mi sono truccata più del solito - blush sulle guance, rossetto color borgogna -, mi sono messa il solito giro di perle al collo, sperando aggiungesse luminosità all'incarnato.

Tutta positiva per il mio tentativo di mascheramento, sono arrivata al lavoro. 
Due minuti è durata l'illusione.

"Oh my god. What happened to you? You look so tired!?"

Niente, non riesco neanche a fingere.

Teenager con sei fratelli si traveste da mamma stanca per halloween.
Datele un premio, per favore.



Monday, October 21, 2019

Girls just want to have fun

Due anni di stupore continuo
Due anni di occhioni neri che fissano senza batter ciglio
Due anni di affarino minuscolo che mi stringo al petto
Due anni di sospetto spaccio di caffeina all'asilo, che altrimenti non si spiegano i
Due anni di notti insonni
Ma d'altra parte, a che pro dormire? Girls just want to have fun
e io mi sto divertendo un mondo con la mia SignoRina.

Happy birthday, my love.





Wednesday, October 9, 2019

Quando si diventa un'azienda

Non sono sparita. Non sono neppure stata risucchiata da un buco nero.
Ho una serie di post in testa che però non riesco a scrivere, alcuni perché incasinati, altri perché boh, tante ragioni disparate.
In sostanza, il vero motivo è che negli ultimi sei mesi ci sono capitate una serie di robe che hanno un po' cambiato le carte in tavola della nostra tranquilla routine familiare. E infatti nelle bozze di questo blog c'è un post intitolato "Sei mesi in due minuti" in cui dovrei riassumere gli eventi, ma è il post incasinato di cui sopra. Ce la farò.

Ma non è quello che voglio scrivere oggi.
Oggi voglio mettere qui nero su bianco degli appunti su come sta una coppia di coniugi che si credeva solida, dopo che qualcuno gli mescola le carte in tavola con robe tipo trasloco, vendita e acquisto casa, problemi enormi sul lavoro, trasferte mie continue.

Dunque, il Teodolindo ed io ci siamo sempre ritenuti una coppia ben rodata e capace di ricavarsi spazi. Prima dei figli andavamo alla grande in quanto a tempo di qualità insieme, poi ci siamo dovuti riorganizzare, ma ce l'abbiamo sempre fatta ritagliandoci pranzi di lavoro insieme (che non erano ovviamente di lavoro) e prendendoci ogni tanto dei giorni di vacanza da soli.

Gli ultimi sei mesi ci hanno segato le gambe, per dirla in due parole e con un eufemismo.

I casini vari ci hanno ridotto prima che ce ne accorgessimo da coppia ad azienda.
Senza neanche rendercene conto, ci siamo ritrovati a parlarci solo per decidere chi facesse cosa, decidere della nostra situazione finanziaria, vedere il calendario delle varie riunioni o viaggi di lavoro per capire chi doveva occuparsi della casa e dei figli.
Gradualmente sono spariti i "ti voglio bene" spontanei, i "ciao stella" prima di uscire di casa, i baci al volo. Non ci chiedevamo più "come stai?".
Sono scomparsi anche le pause pranzo insieme e le notti sempre difficili con la SignoRina hanno rubato tempo anche alle serate sul divano davanti ad una serie tv.
Qualche tempo fa abbiamo provato a prenderci di nuovo una pausa pranzo insieme al ristorante. Grandi aspettative da parte di entrambi, se non fosse che dopo dieci minuti il copione si ripeteva e parlavamo di scadenze, robe da fare, appuntamenti, conto corrente. Non avevamo più niente da dirci che non fosse quello, perché nessuna delle cose di cui avevamo parlato erano particolarmente urgenti. Sono tornata al lavoro che ero di umore non grigio, nero.

Come cazzo ne usciamo? Pensavo.
Come fanno gli altri?
Poi magari altre coppie sono felici così, non hanno bisogno di tempo privilegiato, trovano la piena soddisfazione nella gestione della famiglia e della casa. Ricordo sempre una coppia di 60enni, genitori di 6 figli, che ci dicevano "per noi due il momento di coppia è il ritrovarci ogni sera a lavare i piatti. Quei dieci minuti (con sei figli mi sa almeno un'ora), è sempre stato il tempo per noi". Buon per loro, sinceramenti li invidio. A me purtroppo non basta o forse non ci riesco ancora. Ma proprio no. Io voglio mio marito prima del padre dei miei figli e del co-proprietario della mia casa ipoteca.

Due venerdì fa, quando più o meno il turbine in cui eravamo finiti è sembrato calmarsi un filino, ci siamo ritrovati a casa insieme da soli per puro caso. Mentre il mondo manifestava insieme a Greta Thunberg, il Teodolindo ed io cercavamo di rimettere insieme i pezzi del puzzle della nostra coppia.
Abbiamo discusso di soluzioni, abbiamo cercato un piano comune, abbiamo capito che le cose devono cambiare.

Abbiamo soprattutto realizzato, entrambi, che in certi momenti la spontaneità non basta, che per far funzionare le cose in amore, a volte, bisogna sforzarsi.

Il nostro piano è più o meno il seguente:
1. Tutta la gestione familiare e della casa via email. Devo dirgli che mi occupo io di rinnovare i documenti dell'immigrazione? Email. Mi deve dire che va lui a prendere il Sig. Tenace? Email o messaggio. Diamo più spazio possibile ad altri argomenti di conversazione e al parlarci di come stiamo noi deviando la logistica allo scritto.
2. Basta pranzi insieme per un po', perché il rischio di ridurli a "riunioni di lavoro" è troppo alto;
3. In alternativa, dobbiamo "fare cose" insieme, che ci diano il piacere di passare del tempo insieme e ricordi da condividere e quindi via libera ad esempio a
-appuntamenti in libreria, a sfogliare le ultime uscite letterarie insieme e a comprare libri;
-abbiamo l'abbonamento annuale al museo di arte contemporanea? Bene, usiamolo! Al posto delle pause pranzo una volta ogni tanto, pausa pranzo al museo.
4. Tenerezza: ci si bacia prima di uscire di casa e quando si rientra, ci si chiede "Come stai?" e si ascolta la risposta. Non viene spontaneo o non ci si ricorda perché con un bambino in braccio e un autobus che sta per passare? Ci si sforza, minchia. Ci ispiriamo agli anglofoni che dicono "Fake it until you make it". E tra l'altro mi sembra ancor più un segno di amore: "Non mi sarebbe venuto in mente, ma ti voglio bene e mi sforzo di ricordarmelo. Questa ne è la prova per te".


Faccio cose, vedo gente... Il Teodolindo ed io facciamo il piano della situazione

All'orizzonte ci aspettano ancora decisioni importanti da prendere e per poterlo fare bene, prima abbiamo bisogno di ritrovarci.

Ora, perché condivido tutto ciò? Primo per lasciarne una traccia per me per il futuro. Secondo, per chi legge: ma voi come fate?! Avete consigli? Cosa aggiungereste alla lista qui sopra, considerando naturalmente che ogni ricetta è propria ad ogni coppia?