Tuesday, July 25, 2017

Chi l'avrebbe mai detto - e due!

Chi l'avrebbe mai detto che sarei rimasta incinta.
È successo sei mesi fa, quindi a quest'ora dovrei essermici abituata. Invece mi fa ancora lo stesso effetto. Sorpresa.

Premettiamo alcune cose, che qui non ho mai chiarito.
L'adozione per noi è sempre stata una scelta, mai un ripiego o un piano B ad un piano A andato in modo imprevisto.
Nel momento stesso in cui abbiamo iniziato a cercare di avere figli, abbiamo avviato le pratiche per l'adozione e abbiamo smesso di prendere precauzioni. Immaginavamo una famiglia con figli biologici e figli adottivi e ci dicevamo "Whoever comes first...", vediamo cosa capita prima...
Ingenui.
Dopo neanche un anno era chiaro che entrambe le strade, per motivi che non mi dilungo a spiegare, erano meno facili del previsto.
Dopo due anni abbiamo dovuto fare i conti con la possibilità che né l'una né l'altra strada potessero mai portare ad un figlio.
Adesso che di anni ne sono passati più di cinque guardiamo a quel tempo come ad una benedizione. Stavamo male, parecchio. Ogni volta che guardavamo le liste di documenti da fornire per poter essere potenziali genitori adottivi, entravamo in un circolo vizioso in cui un requisito ci mancava e quando l'avremmo ottenuto i requisiti sarebbero cambiati. Ogni mese che passava senza rimanere incinti ci sentivamo mancanti (sì, "ci", al plurale, perché dell'infertilità vissuta dall'uomo nessuno ne parla, ma fa male uguale) e il fatto che gli esami non definissero chiaramente un problema non aiutava.
Ma dopo tanto star male, abbiamo capito una robetta da niente: la fecondità di una coppia non si può riassumere nella sua fertilità. Ci siamo guardati intorno ed abbiamo iniziato a notare quelle coppie senza figli - per natura o per scelta - che seminavano il bene attorno a loro nei modi più multiformi. Donne e uomini che attuavano l'essere madre e l'essere padre in senso molto più lato del procreare. Alcune di queste persone leggono sicuramente questo post.
E, al contrario, quante coppie attorno a noi con figli e a volte anche tanti, che vivevano l'essere genitori come un ripiegamento su se stessi, o come un veicolo di realizzazione personale, anziché come reale apertura all'altro?
Ma certo, ci siamo detti. Si può essere fecondi in tanti modi e l'avere figli è solo uno di questi.
E così abbiamo iniziato a vederci in modo diverso e a essere famiglia in un modo nuovo. Lo so, è un concetto abbastanza semplice, ma a noi c'è voluto qualche anno per arrivarci. Siamo un po' lenti...

Avevamo fatto pace con l'eventualità di rimanere senza figli: se questi fossero arrivati, ne saremmo stati felici, se invece fossimo rimasti solo noi due sapevamo che ci attendeva una vita diversa, ma non meno ricca o fruttuosa.
Avevamo scalato una piccola montagna ed eravamo arrivati in cima come compagni di cordata che sapevano di poter contare l'uno sull'altro come non mai.

Il Teodolindo ed io ci siamo sposati in montagna. Questa è una foto di quel giorno. Che fosse un segno?


Più di tre anni dopo l'inizio della scarpinata, le cose sul fronte adozione si sono sbloccate e nove mesi dopo ricevevamo la chiamata che ci faceva diventare genitori del Sig. Tenace.
Abbiamo forse tirato un sospiro di sollievo dicendo "Ah, meno male! Dimentichiamoci quella scalata faticosa, per fortuna siamo tornati in pianura!"?
No. La strada percorsa ci aveva cambiati. Diventavamo genitori guardando alla situazione con occhi nuovi e senza smettere di essere la coppia che a quel punto eravamo diventati.

L'arrivo del Sig. Tenace ha pero influenzato il nostro modo di immaginare la nostra famiglia. Come chi legge queste pagine sa, abbiamo iniziato a vederci nelle nostre somiglianze, ma anche nelle nostre differenze. Il Sig. Tenace così unico in famiglia per storia e aspetto: non volevamo che fosse la minoranza visibile a casa nostra, volevamo che i nostri figli - se di plurale si poteva parlare - potessero condividere dei vissuti e, per certi versi, rispecchiarsi l'uno nell'altro. E così abbiamo iniziato le pratiche per la seconda adozione, sempre in Cina. Sull'altro versante, iniziavamo a nutrire dubbi sul modello di famiglia con figli biologici e figli adottivi: imparavamo che le esperienze di chi ci era passato e lo raccontava non erano sicuramente facili, per nessuno dei figli coinvolti. Ma il problema non ci toccava più di tanto, visto che gli anni passavano e con essi diminuivano le probabilità, già basse, di rimanere incinti.
Pian piano non abbiamo più fatto caso al calendario...

Una sera di febbraio, dopo giorni di ritardo, ci siamo decisi a fare il test di gravidanza. Più per tranquillizzarci che fosse solo un ritardo che non altro. E invece il risultato ci ha lasciati a bocca aperta.
Per giorni. Settimane.

Alla fine abbiamo cominciato a parlarne, il Teodolindo ed io. Abbiamo cercato di discernere cosa ci stesse succedendo e ci siamo resi conto che non avevamo capito un cazzo. Che quella scarpinata in montagna non aveva smesso di darci una lezione.
Eccoci lì: ci eravamo ricascati, di nuovo pensavamo di essere noi in pieno controllo delle nostre vite e della nostra visione di famiglia, che ormai immaginavamo solo con figli che arrivavano dalla Cina.
Ed invece quel nuovo sentiero ci ricordava per l'ennesima volta che la vita può sorprenderti. Sempre. E che sta a noi decidere se accettare le salite e le discese, sapendo che poi ci gusteremo il panorama, o se invece sedersi sul ciglio della strada preoccupandosi perché le cose non vanno come avevamo programmato.
La vita ci sorprende e, almeno per come crediamo noi, la sa sempre più lunga di noi.

Così adesso eccoci qui. Il Teodolindo, il Sig. Tenace, ed io con un bebè nella pancia.
Il Teodolindo ed io preghiamo di riuscire ad essere i genitori di cui i nostri figli, entrambi con le loro unicità, avranno bisogno.
Tutti e tre cerchiamo di abituarci alla nuova realtà, con il cuore pieno di stupore e la consapevolezza, per l'ennesima volta, che bisogna affidarsi a quello che la vita sceglie per noi per poterne davvero raccogliere i frutti.

E stavolta il meraviglioso frutto è una Signo Rina, con tanta voglia di scalciare ed un talento da centravanti.





PS il post incazzato sui commenti idioti ricevuti in questi mesi da parenti, amici e passanti del tipo: "Ah, lo sapevo che sarebbe successo! Avete avuto troppa fretta ad adottare!", "Ah, vedi? È la ricompensa per il bene che avete fatto!", "Anche la cugina del cognato di un mio amico è rimasta incinta appena ha fatto domanda d'adozione. Capita sempre così!". Ecco, quel post lì magari lo faccio poi, o magari proprio non lo faccio.

PPS il post sulle reazioni del Sig. Tenace alla notizia, quello invece mi sa che lo scrivo, perché anche per lui è  stata una bella sorpresa.


Tuesday, July 18, 2017

La comunità di appartenenza

Dicono, oggi più di ieri, che un bambino adottato deve essere esposto ad entrambe le culture di appartenenza: quella di nascita e quella di adozione.
Dicono, oggi. Perché fino a ieri si tendeva a cancellare o denigrare la cultura di nascita: ti ho adottato, adesso sei italiano. Punto e a capo, all'insegna della celebrazione della cultura di adozione e dell'idea che, in questo modo, l'integrazione nella società di adozione fosse più facile.
Per fortuna i tempi sono cambiati e sempre di più si dice che bisogna farsi il mazzo, qui da queste parti si dice "to walk the extra mile", per permettere al bambino di integrare nella sua identità tanto la cultura di nascita quanto quella di adozione, senza idealizzare né l'una né l'altra.
Le comunità di appartenenza, le chiamano.



Spesso a percorrere questo "extra mile" ci si dimentica della terza comunità di appartenenza a cui si deve dare accesso.
La comunità degli adottivi.
Il sapere che altri bambini, ma soprattutto persone di ogni eta', sesso e origine, condividono la loro storia è fondamentale.
Ricordo il racconto di una donna adottata dalla Corea. Mi diceva che all'epoca - ha circa 50 anni - lei era l'unica asiatica e l'unica adottata della cittadina in cui è cresciuta in Belgio. I suoi genitori le avevano raccontato la sua storia ("Sei nata in Corea e a 7 mesi ti abbiamo adottata"), ma l'assenza di esposizione a persone che condividessero la sua esperienza e il suo aspetto fisico l'avevano portata a farsi la fantasia che invece forse era malata: quei tratti somatici erano per lei bambina segni di un handicap e la storia dell'adozione, così assurda per lei, era giustificata dal non volerle dire della sua malattia.

Noi, come spesso ci succede, abbiamo capito questo concetto cruciale un po' per culo - o per provvidenza -, attraverso incontri con persone adottive che ci hanno illuminato la strada e a volte ci hanno dato schiaffi virtuali per farci capire cosa prova un bambino con quel vissuto.

Da allora abbiamo ricercato attivamente questi contatti e ci impegniamo perché siamo presenti nella nostra vita e soprattutto nella vita del Sig. Tenace.
Una grande mano ce la dà l'associazione per persone adulte adottive qui in Quebec. Questa qui.
I genitori adottivi non possono esserne membri, ma possono sostenere l'associazione e partecipare alle assemblee e agli eventi. Noi lo facciamo e se l'appuntamento non è solo una discussione del budget, ma anche un evento sociale, di solito ci portiamo dietro il Sig. Tenace che oramai sa che "andiamo là dove ci sono tante persone adottate come me".
All'ultimo pic nic, il Sig. Tenace era cresciuto molto rispetto alla volta precedente e con lui erano cresciuti i suoi pensieri e le sue domande. Ha passato il primo quarto d'ora a chiedermi:
"Mamma, anche questo signore è adottato?"
"Sì, Sig. Tenace, ma non indicare con il dito".
"E anche quella lì'?"
"Sì, ma smettila di puntare il dito verso la gente"
"Anche tu?"
"No, io no, Sig. Tenace, lo sai. Le persone che sono qui sono state tutte adottate tranne me, il papà e questa signora qui dietro'".
Che bello essere per una volta noi la minoranza, e non lui.
E bon, poi è andato a mangiare e giocare.

Stamattina stavo per portare a scuola il Sig. Tenace in bici quando, appena fuori casa, incontriamo la presidente dell'associazione che da poco abita a due passi da casa nostra (l'ho detto che abbiamo culo!). Lei si ferma e ci saluta, saluta soprattutto il Sig. Tenace e lui sa chi è ed è contento di vederla.
E poi in bici il tragitto è stato tutto incentrato su quell'incontro.
"Mamma, anche M. è adottata come me, vero?"
"Sì"
"Cosa vuol dire adottato?"
"Dimmelo tu"
"No, dimmelo tu, mamma!"
Lo sa cosa vuole dire, ma vuole sentirselo ripetere.
"Vuol dire quando la mamma e il papà che mettono al mondo un bambino non possono tenerlo e allora un nuovo papà e una nuova mamma diventano i genitori di quel bambino"
"E anche M. come me ha una mamma e un papà della Cina?"
"No, Sig. Tenace, lei è nata in Corea, ha un papà e una mamma della Corea"
"E poi anche per lei sono arrivati i nuovi genitori?"
"Sì"
"Ed è venuta a vivere a Montreal?"
"Sì"
"Mamma, dov'è la Corea?"
"È vicina alla Cina. È il paese di Pororo"
"Pororo è coreano? E anche Pobi? E Loopy? E Edi?"
...



Questi incontri quotidiani, ecco, per me non hanno prezzo perché la normalità adottiva, se possibile, deve essere anche questo.




Friday, July 14, 2017

Viaggiatori squisiti

"Vengono da lontano, molto lontano. Come è bella e lunga la strada che li ha portati a noi! Nati in Asia o dall'altra parte dell'oceano, nelle Americhe, nativi della Mesopotamia, o dell'Africa verdeggiante, della Persia o del Monte Ararat, molti di questi deliziosi viaggiatori hanno acquisito da molto tempo la nazionalità mediterranea".

Il soggetto non sono persone migranti, ma cibi, protagonisti assoluti del libro che è stato sul mio comodino per mesi e nel mio cuore da tempo.



L'avevo scovato in un localino mignon, ora purtroppo chiuso, che si chiamava "Les mots à la bouche", una libreria di libri di cucina con caffè e pasticceria incorporati. L'avevo adocchiato e subito comprato perché prometteva bene.
"Per questi frutti ed ortaggi seducenti e seduttori, nessun bisogno di lasciapassare, visto o passaporto. Nessuna tassa o imposta da pagare alla dogana. Attraversavano allegramente le frontiere, navigavano sugli oceani, i mari, i fiumi e i corsi d'acqua. Si imbarcavano su navi, dhows, feluche, galere e altre imbarcazioni, avendo per compagni di viaggio marinai, commercianti, pirati o avventurieri."

Ogni capitolo del libro è dedicato ad un alimento.
Si parte dal racconto delle origini e del percorso compiuto, e di come lo si usasse o mangiasse nei diversi paesi in cui questo è approdato.
Si passa poi al viaggio del nome, che è la mia parte preferita. Ad esempio, sesamo (latino, sesamum) deriva dal greco sesamon che a sua volta origina dal babilonese shawash-shamnu. Ma io mi sono sempre chiesta come mai il sesamo in Sicilia si chiami giurgiulena ed è a causa della dominazione araba sull'isola, poiché in arabo sesamo si dice juljulan, da cui deriva ajonjoli in spagnolo e, appunto, giurgiulena in siciliano.

Spesso il racconto diventa una dichiarazione d'amore a questi frutti della terra che hanno percorso migliaia di chilometri, come nel caso della melanzana:
"Mia bella nomade, resta libera, continua a viaggiare senza legami, usalo come uno stendardo questo tuo statuto di bohémienne seducente, tu o straniera davanti a cui tanto i principi quanto i mendicanti si meravigliano."
Il capitolo sull'albicocca. Lo leggi e ne senti il profumo e il sapore.


Credo che, quel giorno in libreria, questo libro mi abbia incuriosito soprattutto perché ero arrivata da poco più di un anno, e stavo scoprendo sulla mia pelle che tanti piatti e cibi che io credevo italiani, o addirittura piemontesi o siciliani, fossero in realtà condivisi da altre culture culinarie.
Un giorno avevo portato al lavoro un vassoietto di baci di dama fatti da me, secondo la ricetta della Elda, amica ottantenne di mia mamma, piemontese da generazioni. "Sono biscotti tipici della mia regione!", avevo detto presentandoli. Una collega li guarda, ne assaggia uno e quasi si commuove "Non sai cosa mi hai regalato, tu oggi! Questi sono identici ai biscotti che mi preparava sempre mia nonna! Non li mangiavo da almeno 30 anni!"
Li preparava sua nonna. In Armenia.
In altre occasioni è stata lei, che mi coccola molto, a portarmi una fetta di pizza armena, con sopra i semi di sesamo, o un'insalata di peperoni e olive nere. Ed ero io a ritrovare gusti familiari.
Per non parlare dei dolci che portavano gli specializzandi arabi alla fine del ramadan: tutti, seppur con nomi e forme diverse, già assaggiati in Sicilia, in occasione delle feste.

Noi figli del mediterraneo siamo la stessa cultura, mangiamo le stesse cose, condividiamo le stesse radici. Melanzane, carciofi, albicocche e caffè ce lo ricordano ogni giorno.



NB Le citazioni riportate sono tradotte da me, come al solito alla maniera un po' cazzona.

Saturday, July 1, 2017

Il sabato del villaggio

Nella sera del sabato del villaggio di casa nostra, la donzelletta è una graziosa brunetta di 39 anni che, messo a letto il figlio, nel silenzio e penombra della casa, mescola farina uova e latte per preparare la colazione della domenica.

La poesia finisce qui, anche se quel momento in cui sola e silenziosa io preparo l'impasto per i pancakes è uno dei miei preferiti di tutta la settimana.

Nulla vieta di preparare il tutto la mattina stessa, ma io trovo che non solo sia più pratico svegliarsi e trovare già la pastella pronta, ma che il riposo notturno giovi ai pancakes.

Si tratta di pancakes con un po' di farina di mais che conferisce un gusto unico e che si sposa molto bene con le fragole. Essendo piuttosto sottili, sembrano più crêpes che pancakes.

1/2 tazza di farina di riso integrale
1/4 tazza di farina di tapioca
1/4 tazza di farina di mais
2 uova
1 tazza di latte
1 cucchiaino di lievito per dolci

Si mescolano dapprima le tre farine con il lievito. Si aggiunge l'uovo e, a poco a poco il latte, fino ad avere una pastella liscia. Si copre e si mette a riposare in frigo fino al mattino seguente.

La domenica mattina si taglia la frutta da usare: fragole e pesche sono il nostro abbinamento preferito (soprattutto quando si ha una scorta di fragole per un anno in frigo...).
Si fa cuocere un mestolino di pastella in una padella imburrata, avendo cura che sia abbastanza sottile - la pastella, non la padella. Prima di girare la crêpe, si aggiunge la frutta e si ripiega a metà il pancake. Si gira, e si lascia cuocere per altri due-tre minuti.
A questo punto ci sono due opzioni: si toglie dal fuoco e si serve irrorando di sciroppo d'acero, oppure si lascia sul fuoco e si bagna con succo di frutta (pesca in questo caso, o arancia). In entrambi i modi sono deliziose.




E per finire torniamo a Leopardi, che a lui se non ricordo male già gli veniva la tristezza la domenica pensando alla settimana. Ecco, la possibilità di preparare questi pancakes la sera prima, fa sì che essi allietino non solo i giorni di festa, ma anche i lunedì mattina che spesso sono un po' più duri per tutti, non solo per il buon vecchio Giacomo.