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Thursday, August 17, 2017

L'isola del principe

Quest'anno avevamo a disposizione solo una settimana di vacanza, per ragioni lavorative mie e del Teodolindo e perché io tra due mesi sarò a casa in ferie per sei mesi, come dice qualcuno al lavoro da me, congedo di maternità e certe robe le devo finire prima di partorire, possibilmente. 
Dove andiamo? 
Avevamo voglia di mare quindi le opzioni erano le seguenti:
Sicilia, come inizialmente pensato: troppo lontano.
Caraibi: vicino, ma virus Zika quindi per me fuori questione.
Costa Est degli Stati Uniti, ad esempio Cape Cod, o Maine: troppe ore di macchina, e poi chi c'ha voglia di trovarsi negli USA incinta di sette mesi? Se capita qualcosa, nonostante l'assicurazione, sono dei bei soldi da sborsare o quantomeno anticipare. 
Canada: sì, ma dove? 
Le Isole de la Madeleine? Un sogno, ma troppo isolate. Però, però... lì vicino non c'è forse Prince Edward Island? L'unica volta in cui ci siamo passati, per 24 ore, in transito verso les îles de la Madeleine, ci era sembrata molto suggestiva.

La scelta è stata fatta, e Prince Edward Island - la terra di Red soil, Blue Sea, Green Fields -  ci ha accolti e coccolati per otto giorni. Una meraviglia. Una vacanza che, per tanti motivi e momenti, ci ricorderemo. 
Di seguito alcune foto, che però non rendono giustizia alla bellezza dei luoghi.


Terra rossa, mare blu, prati verdi. PEI. Questa era la spiaggia vicino a casa.

PEI, soprattutto nella costa sud dove eravamo noi, è famosa per le maree. Al mattino l'acqua era bassa, si camminava per chilometri, e quando si era accaldati ci si buttava in una delle piscinette naturali.


Le robine nere che si vedono in lontananza sono persone. Abbiamo visto anche foche che io ho scambiato per subbaqqui.

Il Canada, si sa, è un paese enorme e con poca gente. PEI non fa eccezione. Non è stato infrequente essere gli unici in una spiaggia ed approfittare da soli del cielo e del mare. 

"Vieni, papa', andiamo a fare due passi fino in Nova Scotia!"

E se si guarda dall'altra parte? Se si volge lo sguardo verso l'entroterra?

Campi e fattorie a perdita d'occhio. Qui il Sig. Tenace passeggiava con la capretta George al guinzaglio.

Un'amica della capretta George, davanti al classico fienile rosso.

Di nuovo, verde e blu.
Ancora verde e blu. Questa volta dalla macchina in viaggio.


Quando rientri da un luogo e pensi già alla prossima volta in cui ci tornerai...



Friday, July 10, 2015

Si parte

Allora noi si parte.
Sarà uno di quei viaggi che marcano un cambiamento,  e io mi sento pronta a cambiare.

La solita, amata, Louise Bourgeois, 2001 (moma.org)

Monday, April 20, 2015

Mare nostro (II)


Non fu il mare a raccoglierci,  
noi raccogliemmo il mare a braccia aperte.
           Erri De Luca, "Sei voci". 2005

Foto di http://www.riparteilfuturo.it/


Tra le tante parole lette in questi giorni, scelgo queste di Stefano Liberti, su Internazionale del 19 aprile (da qui, come anche qui):

"Invece di esprimere un cordoglio un po’ ipocrita in occasione di ogni strage, l’Unione Europea dovrebbe lanciare una grande operazione di soccorso in mare al largo della Libia. Oppure garantire canali legali di accesso nello spazio Schengen a tutti questi profughi in fuga da guerre e persecuzioni che non hanno altra opzione che salire sui barconi. L’alternativa è accettare di essere complici di questa ecatombe, perché non agire oggi è come essere conniventi."


E anche queste altre parole - unica, minima, consolazione di oggi - apparse su un quotidiano canadese in un articolo di François Brousseau intitolato "Marée inhumaine" (marea disumana):

"...la générosité (les Italiens du Sud, presque seuls au front, exemplaires de solidarité)..." 

Appartengo ad un popolo generoso, capace ancora di compassione. E il mondo ce lo riconosce.
Mai smettere di provare pena. Mai smettere di ricordarci che siamo solo, per puro caso, sulla riva fortunata di quel mare nostro che è tale perché di noi tutti affacciati su quelle acque.

Friday, February 13, 2015

Mare nostro


Potete respingere, non riportare indietro,
è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata. 

da qui

Da qualunque distanza arriveremo, a milioni di passi
quelli che vanno a piedi non possono essere fermati

Da nostri fianchi nasce il vostro nuovo mondo,
è nostra la rottura delle acque, la montata del latte.

Voi siete il collo del pianeta, la testa pettinata,
il naso delicato, siete cima di sabbia dell'umanità.

Noi siamo i piedi in marcia per raggiungervi,
vi reggeremo il corpo, fresco di forze nostre.

Spaleremo la neve, allisceremo i prati, batteremo i tappeti
noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo.

Uno di noi a nome di tutti ha detto:
"Va bene, muoio, ma in tre giorni resuscito e ritorno".

da "Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo"
di Erri De Luca. Feltrinelli, 2005.




[La foto, Mare nostrum, è di Massimo Sestini ed ha ricevuto un 2015 World Press Photo Award]

Saturday, September 20, 2014

Mangiare da soli

Mio marito è in viaggio per qualche giorno e così io mi ritrovo da sola, qui nella nostra casa.
Per chi e abituato a vivere quasi in simbiosi come noi, che da quando siamo immigrati qui condividiamo molte più cose di prima, il trovarsi poi di colpo nella propria casa senza l'altro fa sentire che qualcosa manca. Un corpo, nel mio caso alto un metro e ottantacinque per 67 kg di peso, che fa sentire la sua assenza soprattutto di notte, nel letto, che sembra - e lo è- mezzo vuoto.
A parte lo smarrimento iniziale, io finisco poi sempre per gustarmi questi momenti di solitudine. I pasti in particolare.
Mangiare da soli.

Questa mattina facevo colazione. Mi sono preparata la tavola, ho messo sul fuoco il bollitore. Poi ho preso dalla dispensa i cereali comprati da mio marito e dal frigo il latte di mandorle.
Ho anche preso un libro - adoro mangiare in compagnia di un libro - e mi sono apprestata a cominciare la mia colazione.

Ho sfogliato le pagine de "La cucina del buon gusto" di Simonetta Agnello Hornby fino ad arrivare proprio al capitolo in cui parla del mangiare da soli. Volevo rileggerlo.
Intanto ho versato i cereali nella ciotola, chiedendomi per quale razza di motivo il Teodolindo avesse comprato dei cereali con scorze di arancia, e poi li ho coperti con il latte di mandorla.
E mentre leggevo i racconti di Simonetta Agnello sui suoi pasti da sola, il profumo delle scorze d'arancia di 'sti benedetti cereali unito al gusto di mandorla del latte mi hanno improvvisamente ricordato il croccante di mandorle che mia nonna preparava sempre per Natale. Era uguale: il gusto potente delle mandorle tostate avvolto dallo zucchero profumato di succo e buccia di arance siciliane. A volte le si bruciacchiava, altre volte diceva che era troppo duro. Noi lo finivamo sempre, e non notavamo mai difetti.

Di colpo mi sono trovata a fare colazione non da sola, ma in compagnia di mia nonna.
Non ricordo una colazione migliore da tanto tempo.




Monday, September 1, 2014

La creazione di nuovi ricordi

Lo si sa, che i ricordi più antichi sono odori e sapori.

A me tornano nel naso l'odore pungente della paglia nella stalla della casa dei nonni, in Sicilia, e  l'odore del ragù che sobbolle in cucina, già alle dieci del mattino, in inverno.

Poi sento i sapori che più son radicati nella mia memoria. Le polpette di mia nonna, la pasta con le patate e cipolle, le melanzane alla parmigiana, mangiate fredde.

Questi ricordi hanno costruito la mia identità. Io sono dentro questi sapori e odori. C'è la me stessa bambina, poi ragazzina. Io mi ci ritrovo e mi riguardo.

Non sorprende allora che, quando sono in terra straniera, io senta prepotente riaffiorare quei ricordi. Non è solo nostalgia, non è solo che in Canada non ci sono le melanzane e i pomodori e le mozzarelle buone. Ma va là.
È che venendo qui ho subito uno sradicamento. Dolce, gentile, non traumatico, certo. Ma le mie radici non poggiano più su quella terra da cui si sono nutrite per trent'anni. E allora chiamano quei vecchi sapori e odori per ricordarsi chi sono e da dove vengono.

È un gioco continuo. Mi costruisco, cambio, e però devo sempre guardarmi indietro per conoscere poi la direzione del cambiamento, per non trovarmi poi persa.


A vivere in terra straniera, si finisce che le proprie radici, oltre a nutrirle di ricordi passati, le si rinvigorisca con ricordi nuovi. Con sapori e odori che non appartengono alla mia storia, ma che lo saranno a partire da ora, e in parte lo sono già.

Il cake al peanut butter (la bambina che ero non ci avrebbe mai creduto).
La vellutata di barbabietole in inverno.

E questa torta rovesciata ai frutti di bosco?


Il tempo lo dirà.

Va fatta ad estate inoltrata, perché vuole i mirtilli e gli altri petits fruits, e mangiata a colazione sul terrazzo assolato, il sabato mattina alle sette e mezza, parlando a bassa voce perché attorno i vicini dormono ancora.

È una ricetta del Quebec ed è la prova del fatto che anche il mio cucinare sta cambiando, perché ho dovuto imparare ad usare le cups come unità di misura e perché posso permettermi di fare una torta con quantità di mirtilli e cassis che in Italia pagherei oro e che qui ti tirano quasi dietro.

Ci si mette dieci minuti (dieci!) a prepararla e trenta a cuocerla.
Si preriscalda il forno a 180 gradi.

Si prendono:
due tazze di frutti di bosco (mirtilli, ribes, fragole, lamponi)
un cucchiaio di amido di mais o di farina di tapioca
due cucchiai di zucchero, meglio se di canna
Si mischiano insieme e li si lascia da parte.

Poi:
3/4 di tazza di farina (per me, 1/2 tazza di farina di riso bruno + 1/4 di farina di tapioca)
due cucchiai di zucchero di canna
un cucchiaino di lievito
un cucchiaino di bicarbonato
cannella e noce moscata a piacere
Si mischia il tutto e si lascia da parte.

Poi ancora:
1/2 tazza di yogurt naturale
30 g circa di burro fuso, a fuoco molto dolce, e poi lasciato raffreddare

Infine:
si versano i frutti in una tortiera precedentemente imburrata. 
Si mischia il composto di farine con lo yogurt e il burro (se dovesse essere troppo denso, aggiungere un paio di cucchiai di latte) e lo si versa sopra ai frutti nella tortiera.
Si inforna per 30 minuti o fino a quando la superficie è bella dorata e la cucina è invasa di profumo di torta e frutti rossi...

La morte sua è con un po' di gelato alla crema o yogurt bianco...











Sunday, August 24, 2014

La contentezza di sapersi italiani, cap. 2

La stagione dei festival (nel resto del mondo chiamata "estate") sta finendo. E come d'abitudine, è il Festival des Films du Monde a chiudere la stagione.

Siamo appena rientrati dall'aver visto La mafia uccide solo d'estate, di Pierfrancesco Diliberto, altrimenti noto come Pif.

Pif  -  da qui
Un bel film, innegabilmente divertente, inaspettatamente emozionante.

Pif ha raccontato la Palermo e gli anni terribili dell'ascesa di Riina e del maxi processo in modo dissacrante verso quella mafia che, molte volte, è stata invece descritta con toni drammatici che sfociavano quasi nel timore reverenziale.

Al contrario, lui l'ha presa in giro, la mafia, pur tuttavia narrando i fatti con rigore giornalistico.



Presente questa sera alla proiezione, Pif mi è apparsa una persona modesta, capace di quell'autoironia che caratterizza alcuni italiani, forse i migliori, senza peraltro mancare di serietà. Ecco, mi ha dato l'idea di essere serio senza prendersi sul serio.

La miglior frase del film:

I genitori hanno due compiti fondamentali. Il primo è quello di difendere il proprio figlio dalla malvagità del mondo. Il secondo è quello di aiutarlo a riconoscerla.

Di nuovo, mi sono sentita contenta, e fiera, di essere italiana.

Sunday, August 3, 2014

Minnule e Mennulara

Montreal, tardo pomeriggio di una pigra domenica di agosto. Trenta gradi, vento caldo.

La mia mente, chissà come, sarà il vento caldo, ritorna ai tardi pomeriggi di agosto di trent'anni fa.
Allora, io con i miei genitori e mio fratello tornavamo dal mare, cotti dal sole e dal vento, e rientrando nel cortile della casa dei nonni, nell'entroterra siciliano, trovavamo immancabilmente mio nonno, seduto su una sedia impagliata, con accanto un barile pieno di mandorle da sbucciare del mallo e un altro barile in cui mettere le mandorle con il guscio pulito. Svolgeva l'operazione con due pietre, una piatta, usata come supporto, e l'altra più appuntita, che serviva a togliere il mallo dal guscio delle minnule.

Mio papa, mio fratello ed io ci fermavamo in cortile ad aiutare il nonno. Lui andava a prendere pietre e sedie per noi due bambini e ci spiegava come fare. Io ricordo che i miei gesti si concludevano più spesso con pietrate sulle dita che con un'efficace sbucciatura delle mandorle. Ricordo la pietra troppo pesante perché la mia mano di bambina potesse compiere il suo dovere.

Ricordo poi che mio nonno e mio padre, tra una minnula e l'altra, ogni tanto di mandorle ne rompevano una e ce la davano da mangiare. Amara, verde. Deliziosa. Era un piccolo premio, una cosa preziosa.
Il tutto avveniva in silenzio, o forse solo poche parole venivano dette.
Sono cresciuta d'estate in quel cortile in cui si riusciva a stare in silenzio, perché di parole non ce n'era bisogno.

Da allora le minnule per me sono casa.

Oggi ho portato in terrazza due ciotole, una piena di mandorle coperte di acqua bollente e una vuota. E ho spellato le mandorle, con calma, in silenzio. Davanti a me il Teodolindo leggeva un libro, mi ha vista trafficare con bucce e mandorle e mi ha detto: "Tu non riesci proprio a stare tranquilla, eh?". Non sapeva che nulla equivaleva alla tranquillità più di quel gesto.



Con quelle mandorle ci ho poi fatto un pesto di foglie di carote. Avevo comprato un mazzo di carote questa mattina, e le foglie mi piacciono più delle carote stesse. Pensare che c'è gente che le foglie le butta!


Avevo anche già lavato le foglie che erano pronte per essere tritate insieme ad una manciata di mandorle spellate ed una di pistacchi, il tutto naturalmente ammorbidito da abbondante olio di oliva extravergine.


Mentre ero lì, intenta a tritare mandorle e unirle alle foglie di carote, pensavo alla reazione che avrebbero avuto le tre generazioni di uomini della mia famiglia a vedermi fare una ricetta simile, così strana per la nostra tradizione di casa, per cui le mandorle si usano nei dolci. Punto.

Non riesco ad immaginare una sola possibile parola pronunciata dai tre - mio nonno, mio padre, mio fratello- però ho chiarissimi in mente come mi avrebbero guardata e l'espressione del loro volto, un misto di diffidenza e curiosità, tutte siciliane.

"Pietro Fatta e padre Arena erano impassibili, esempi di quella abilità a dissimulare i propri pensieri e sentimenti che i siciliani si bevono col latte materno." 
Simonetta Agnello Hornby, La mennulara. 2002.






Saturday, July 5, 2014

La contentezza di sapersi italiani


[Intervistato sul significato del successo e dell'essere riconosciuto]

 link

"Per me ha un significato preoccupante. Preoccupante perché solletica un lato negativo che tutti abbiamo, che è la necessità di farsi dire “bravo” da qualcuno."

                  Gianmaria Testa, 2010 






Gianmaria Testa era in concerto questa sera, al teatro del Gesu, nell'ambito del Festival del Jazz di Montreal. Noi c'eravamo. Molto bello, intimo, essenziale.

Gianmaria Testa intercalava le sue canzoni con racconti personali, legati in modo più o meno diretto alle canzoni, e lo faceva con un'ironia sottile, autocanzonatoria. I Montrealesi ridevano di gusto, come raramente li ho visti fare. Erano risa non solo di divertimento, ma anche di stupore per come una persona di quel calibro, che fa il tutto esaurito per tre sere di fila al Montreal Jazz Festival - di cui peraltro è un habitué - potesse ridere e far ridere di sé. E il tutto con poche parole. Misurate.

E io ad un certo punto mi sono estraniata dal concerto.

La musica e la voce di Gianmaria Testa sono rimaste in sottofondo, e io mi son trovata a pensare che noi Italiani, spesso soprattutto noi Italiani all'estero, crediamo che gli altri, i non Italiani, ci riconoscano come i caciaroni o i maneggioni. Temiamo che gli Italiani famosi nel mondo siano i Berlusconi, gli Albano e Romina, le Raffaella Carrà.

Poi invece, nella discrezione che li caratterizza, sono persone come Gianmaria Testa ed Erri De Luca che attraversano l'oceano e lo conquistano con la loro misura.

link


Parola dopo parola, nota dopo nota.
Frutti di un talento che è maturità, ed è cultura che affonda le radici nella storia di un popolo, come quello italiano, che è migrante da sempre. E con questa consapevolezza e l'umiltà che ne deriva, loro, gli Erri, i Gianmaria, si affacciano al mondo e dal mondo si fanno amare.

E io, con quella musica nel sottofondo dei miei pensieri, mi sono sentita contenta di essere italiana.

Sunday, February 16, 2014

Altri arrivi e partenze


Come si fa a dire addio? Come?
Sono tornata di corsa per salutare il nonno, viaggiando con il timore di non arrivare in tempo per farlo, e adesso mi ritrovo al momento di ripartire  e a dovergli dire ciao sapendo che sarà l’ultimo.

Ho sempre detto che gli arrivi e le partenze servono a darmi la misura degli affetti.
Ma questa volta è di più.

Sai che la sofferenza d’amore
non si cura
se non con la presenza e la Sua figura

Come un bambino stanco ora voglio riposare
e lascio la mia vita a te.
                                     Giuni Russo e San Giovanni della Croce



Wednesday, September 11, 2013

Arcipelaghi

Constatavo or ora che io mi sono sempre sentita un'isola. E come tale le ricerco, le bramo, e trovo quella pace inscindibile dalla trepidazione solo quando metto piede su un'isola. Alla fine ci sono anche venuta a vivere, su un'isola, anche se sui generis
Constatavo pero' che, piu' che le isole, sono gli arcipelaghi che mi attraggono. 
Le isole che non sono sole. 
Le isole che sanno stare con altre isole per formare meraviglie. 
Ecco, pian piano nella mia vita io trovo le altre "isole" con cui sto bene e con cui costruire un arcipelago anche se mari, fiumi e tonnellate di acqua ci separano.


Wednesday, October 3, 2012

In aeroporto

Ho proprio bisogno degli arrivi e delle partenze per sentire la temperatura degli affetti.

In partenza per Washington, DC

Monday, September 17, 2012

Stagioni

Ho bisogno delle stagioni.
Ho bisogno di accorgermi che il tempo passa per tutto. Per me, per il Fede, per gli alberi, per la terra.

Guardo l'acero fuori dalla finestra della camera e posso toccare le foglie che diventano rosse. Giorno dopo giorno sono sempre piu' quelle rosse rispetto a quelle ancora verdi.

E ringrazio di abitare a Montreal, di avere un acero a portata di dita e un gatto che ci ha adottati solo per essere accarezzato.