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Monday, March 11, 2019

Sul giorno internazionale della donna

Pochi giorni fa è stata la Festa della donna.
Io ho visto passare post sulla mia pagina facebook e, devo ammettere, mi sono sentita a disagio con molti di essi.
Il punto è che molte delle mie amiche su facebook hanno pubblicato parole del genere:
"Insegnerò a mia figlia che può essere quello che vuole, vestirsi come vuole, amare chi vuole, fare il lavoro che vuole,..."
O, più in generale:
"C'è bisogno di educare le donne di domani al reclamare i propri diritti, seguire i propri sogni e diventare le donne che cambieranno il mondo". 

Uhm, perché mi dà così fastidio? Sono forse in disaccordo con tali affermazioni? Certo che no.

Eppure, sono molto infastidita.

Quel che mi ha infastidito è che, a mio modesto parere, insistere sull'importanza dell'educazione delle femmine nel giorno internazionale della donna metta la responsabilità dell'ineguaglianza di genere su di lei, che in realtà ne è la vittima.

Penso davvero che educando la SignoRina lei riuscirà ad evitare o a subire minori diseguaglianze di genere rispetto a me?
Non proprio.
Voglio davvero che mia figlia pensi che sta a lei realizzarsi nella vita, deve solo crederci?
Direi di no.
O donne là fuori, ve ne accorgete? Siamo cresciute convinte che se non arriviamo dove vogliamo è colpa nostra, ci hanno fatto credere che è perché non conosciamo abbastanza i nostri diritti o perché non vogliamo davvero seguire i nostri sogni.
Questo pensiero non è forse parente più o meno alla lontana del vecchio "Se si è vestita in quel modo, se l'è andata a cercare"?
Di chi è la responsabilità delle inequità di genere?
Di chi dobbiamo cambiare la mentalità se vogliamo davvero che le cose cambino?
Non è che forse è quella dei maschi?!




Si sa, ho un figlio maschio e una figlia femmina.

Sono profondamente convita che il Teodolindo ed io avremo probabilità più alte di contribuire all'appianamento delle inequità di genere se educhiamo il Sig. Tenace in un modo in cui le generazioni maschili precedenti non sono state educate (abbastanza):
-insegnandogli che quel che otterrà nella vita potrebbe non essere solo il risultato dei suoi meriti, ma che il privilegio di essere maschio gioca un ruolo enorme;
-insegnandogli che, anche se ugualmente competenti, un uomo ha probabilità maggiori di una donna di essere scelto per un lavoro;
-o, in alternativa, che una donna che arriva alla stessa posizione di un uomo, ha dovuto faticare e sacrificarsi due volte tanto per essere dove è;
-insegnandogli che non deve sempre avere l'ultima parola in una conversazione con una donna perché lui ne sa di più, perché si dà il caso che non sia sempre vero... E soprattutto che non dovrà mai cercare di spiegare ad una donna quello che lei ha appena detto (dicesi "mansplaining", vi suona familiare?);
-insegnadogli cos'è il consenso, fin da ora che ha sei anni. E in questo la scuola ci aiuta perche ne hanno già parlato :)
-fornendogli modelli di mascolinità che siano diversi dal classico macho. A questo proposito questo libro è nella nostra lista dei desideri.
-essendo, il Teodolindo ed io, esempi quotidiani di equità di genere nella gestione della nostra famiglia ed esigere dai nostri figli lo stesso;
-(aggiungete pure nei commenti)...


E solo allora insegnerò alla SignoRina, nel modo più appassionato possibile, quali sono i suoi diritti e come lottare per essi.




(mi sono sfogata, sto meglio)

Thursday, July 26, 2018

Arrivo con l'ultimo treno - cap. 1

...ma ci arrivo anch'io.
Finalmente, dopo mesi - letteralmente nove- ricomincio a prendermi del tempo per le cose che mi piacciono (e che non includono persone sotto i sei anni di età).
In questi mesi ho fatto una lista, mentale e cartacea a seconda della disponibilita di fogli, di film da vedere, libri da leggere, mostre da visitare, ristoranti da provare, agognando il giorno in cui
Le prime due cose che ho visto rientrano in pieno nella categoria "cose semplicemente belle", ma di quel bello che ti resta nell'anima per giorni e che fa venire voglia di essere delle persone migliori.

Eccole. Chi legge le avrà già viste e magari pure riviste, l'ho detto, arrivo con l'ultimo treno, c'ho nove mesi di arretrati, abbiate pazienza.

La prima è lei. Hannah Gadsby



Il suo ultimo spettacolo, Nanette, di comico ha ben poco e passerà alla storia proprio per questo. Tutto nasce dalla storia di Hannah: donna, dall'aspetto non conforme al suo genere, lesbica, nativa della Tasmania, paese in cui l'omosessualità è stata depenalizzata nel 1997, quando lei di anni ne aveva 20. Ha costruito la sua carriera di comica sull'autodenigrazione, come molti comici appartenenti a minoranze, siano queste razziali, religiose o di orientamento sessuale. Con Nanette, Hannah non ci sta più perché, come dice nello spettacolo,

"che cos'è l'autodenigrazione quando proviene da chi vive ai margini della società, come lei? Smette di essere umiltà, e diventa umiliazione". 

Hannah ora si senta forte al punto da potersi permettere di lasciare la commedia, per raccontare il suo passato per intero, e non solo attraverso la lente dell'autoironia che rende tutto più confortevole all'orecchio di chi ascolta.




E ancora, verso la fine dello show:


"I believe we can paint a better world, if we learn to see it from all perspectives, as many perspectives as we possibly could. Because diversity is strenght. Difference is a teacher. Fear difference, you learn nothing."



Il risultato di questa bomba lanciata da Hannah non è l'uscita di scena, ma l'inizio di una discussione, speriamo lunga e profonda, sul privilegio, chi lo detiene e chi, come lei e come le donne in genere, finora l'ha subito, ma ne ha abbastanza.

Lo spettacolo è da guardare e riguardare. Da soli, in compagnia per discuterne, fare delle pause e segnarsi le frasi. Se non l'avete ancora fatto, dedicate una serata a guardarlo, è su Netflix. Poi, se volete, ditemi cosa ne pensate.





La seconda cosa bella che ho visto la scrivo nel prossimo post, a breve.








Tuesday, May 15, 2018

La cosa che più mi manca dell'Italia

Non è la pizza.
Non è la mozzarella.
Non è il clima.

Sono loro.
È lei.

L'eleganza degli uomini italiani.





Ahhh.
Ditemi, o voi che leggete, se non sono magnifici. Mi sembra anche di sentire il profumo di dopobarba.


È qualcosa di naturale, per nulla pretenzioso. Sanno vestirsi e ci tengono a farlo. Indipendentemente dall'età, dall'estrazione sociale, dal luogo in cui vivono, dal lavoro che fanno. Sanno apprezzare un bel maglione, per non parlare di un completo giacca e pantalone. Sanno quando vestirsi di lana o di cotone o di lino. Anche il jeans è indossato sapientemente. Nulla è lasciato al caso. Sanno che anche per andare a comprare il giornale la domenica mattina in edicola ci si veste decentemente. E "decentemente" per l'uomo italiano equivale a quel che nel resto del mondo è uno standard altissimo.




Pensate che vostro padre o vostro cugino o vostro marito si vestano male? Pensate che quest'attitudine non si applichi a chi conoscete?
Voi. Non avete. Idea. Se non siete stati qui in Canada o negli Usa (ok, eccezion fatta per NYC), voi non sapete cosa voglia dire vedere uomini a cui non interessa l'abbigliamento e lo stile. Qui letteralmente gli uomini per lo più si vestono per coprirsi, salvo rare eccezioni che mi fanno voltare per strada, e spesso sospetto si tratti di italiani.

Anni fa, forse ero qui da appena un anno o due, una segretaria sulla cinquantina mi raccontò di essere stata in vacanza in Italia con suo marito. "Sai cosa mi ha colpito di più?", mi disse, "Gli uomini. Sono tutti così... così effeminati! Con la sciarpa al collo, e la camicia,... e poi profumano!". Pare che il marito non si capacitasse di come facessero a essere così attenti e soprattutto si chiedeva come mai lo fossero. Capito? La cura di sé vista in modo dispregiativo.





Il problema è che l'eleganza degli uomini italiani credo che in parte sia innata, ma molto sia influenzata dal contesto. Se attorno hai colleghi, amici, parenti che si vestono bene, tu pure ci stai più attento. Quando ho conosciuto il Teodolindo, mi aveva colpito proprio la cura con cui si vestiva. Ricordo ancora, e pure lui, cosa indossasse al primo appuntamento. E anche al secondo. Non troppo elegante, ma sicuramente ricercato e attento ai particolari.
E ora? Ora... è una dura battaglia. Se ne accorge che gli standard con cui si confronta sono molto più bassi e si rende conto che a volte perde colpi. Quando poi torna in Italia è come con la bicicletta - non ti dimentichi come si pedala - ed allora eccolo che arriva la crisi di identità ed escono frasi come "Non ho niente da mettere", "Sono sciatto", "Ho solo vestiti vecchi, dobbiamo andare a fare spese".

E puntualmente torniamo a Montreal con le valige piene e con un vestito, se non due, di Boggi, comprati all'aeroporto.






Tutte le immagini sono prese dal sito di The Sartorialist.






Monday, March 5, 2018

L'importanza dello specchio

In questo giorno in cui molti italiani, ma evidentemente non la maggioranza, ha l'amaro in bocca pensando al presente e al futuro, io voglio lasciare su queste pagine una nota positiva. 
L'avrete già vista in giro sulla rete, la foto di questa bambina di due anni che rimane a bocca aperta di fronte al ritratto di Michelle Obama allo Smithsonian a Washington.


da qui

Da sola vale più di mille parole, ma già che siamo qui diciamole due parole.

Pare che la bambina pensasse che si trattasse di una regina e che dopo aver visto il ritratto voglia diventare regina anche lei.
La madre della piccola ha riferito alla CNN che "come donna e donna di colore, è molto importante mostrare a mia figlia esempi di persone che le assomigliano e che fanno cose importanti che passeranno alla storia, in modo che lei sappia che anche lei potrà fare lo stesso".
In fondo tutto ciò riflette esattamente quanto Michelle Obama aveva dichiarato in occasione della presentazione del ritratto:

"(Ragazze e ragazze di colore) vedranno l'immagine di qualcuno che assomiglia loro sui muri di questa grande istituzione americana... E io so quale impatto ciò avrà sulle loro vite, perché io ero una di quelle ragazze."

Teniamo duro. Io credo ci sia speranza.

Monday, January 23, 2017

Il mio comodino. Gennaio 2017

Ho in mente di fotografare il mio comodino una volta al mese, per un anno. Questo è il proposito, poi vediamo se riesco a tenere fede al progetto o se non mi perdo via.

In data 15 gennaio il mio comodino si presentava così:



Per caso, o forse non per caso, il comodino è condiviso da tre donne che secondo me andrebbero molto d'accordo tra loro. Le presento in ordine di anzianità:

Elisabeth Catez, meglio nota come Elisabetta della Trinità.
Leggo una pagina o due delle sue Opere Complete ogni sera. È un cioccolatino per l'anima che mi gusto prima di dormire, ma sono a pagina 620, la scatola sta per finire.

"Crois toujours à l'amour" malgré tout ce qui se passe.

"C'est la simplicité qui rend à Dieu honneur et louange... C'est elle qui nous transportera dans la profondeur où Dieu habite."


["Credi sempre all'amore" qualunque cosa accada.
È la semplicità che dà gloria e onore a Dio. È essa che ci trasporterà negli abissi in cui Dio abita.]


Rebecca Solnit, "Men explain things to me".
Uno di quei libri che riescono contemporaneamente a farti infuriare, a consolarti e a farti sperare. Spero in un mondo in cui donne e uomini siano più consapevoli di un concetto come quello del mansplaining, auspicando che la consapevolezza porti al cambiamento.

Per inciso, dicesi mansplaining quel fenomeno per cui gli uomini danno spiegazioni alle donne, spesso in tono paternalistico, su argomenti ovvi o in cui la donna in questione è esperta, partendo dal presupposto che loro ne sanno di più o che comunque sanno spiegarlo meglio. Lo so, se siete donne sapete benissimo di cosa sto parlando.

"Men explain things to me, still. And no man has ever apologized for explaining, wrongly, things that I know and they don't. Not yet, but accordingly to the actuarial tables, I may have another forty-something years to live, more or less, so it could happen. Though I am not holding my breath."
[Gli uomini continuano a spiegarmi cose. E nessun uomo si è mai scusato per avermi spiegato, in modo incorretto, cose che io so e loro no. Almeno non ancora, ma secondo le aspettative attuali, io potrei avere ancora una quarantina di anni da vivere, quindi può sempre succedere. Anche se non sto qui con il fiato sospeso.]

Silvia Pareschi, "I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani".
Questo libro mi ha sorpreso. Frequento il blog di Silvia assiduamente e lei è di casa da queste parti. Di conseguenza, avevo già sentito, in forma ridotta o diversa, la maggior parte delle storie che lei racconta nel libro. Mi aspettavo quindi di ritrovare qualcosa di noto, e invece, per quanto molti elementi siano familiari (le sorelle della perpetua indulgenza, la residenza di Carl Djerassi,...) il libro mi tiene attaccata alle pagine come se stessi leggendo un giallo. Familiarità unita a sorpresa: ditemi voi se queste non sono le caratteristiche perfette di un buon libro.
E così lo centellino. Un racconto a sera al massimo. Un po' come quando stai prendendo un bicchiere di vino con un'amica e vuoi che duri molto di più di quei 150 cc.

"Già, i puma. Oggi ho portato con me un bastone, sembra che insieme al ruggito sia un elemento di protezione essenziale. La cosa migliore, però, sarebbe riuscire ad assestare un calcio sul naso dell'animale. Così dicono. Immagino la scena: io che ruggisco, roteando un bastone e alzando la gamba in un'agile mossa di kick boxing."






P.S. le traduzioni, come al solito, sono le mie personali, quindi molto approssimative...

Thursday, December 22, 2016

Such a sweet girl

Capitava che, qualche mese fa, una maestra del Sig Tenace con un problema neurologico avesse bisogno di capire cosa le stesse succedendo. Mi sono attivata, l'ho seguita per quanto possibile secondo le mie competenze, mi sono seduta nel mio studiolo con lei e ci ho messo tutto il tempo che ci voleva per spiegarle quello che in anni di visite nessuno si era mai assicurato che lei avesse capito. Ho fatto il mio dovere. Certo, il lavorare su malattie rare, e non, ad esempio, sul diabete, mi aiuta ad essere abituata a visite che non durano mezz'ora, perché per spiegare robe rare e complicate ci vuole il suo tempo.
Alla fine è stata inviata ad un neurochirurgo, per essere operata, e all'incontro con questo gli dice: "Sa, conosco la dr.ssa Slicing Potatoes. È lei che finalmente mi ha spiegato la rava e la fava." E lui, che sa chi sono, risponde:
"Ah, I know her. She is a lovely girl".
Due settimane fa il mio capo, uomo di mezza età, mi chiede il favore di gestire una relazione di lavoro un po' spinosa via email. Nella email in cui mi coinvolge, mettendomi in copia conoscenza con questi colleghi in Europa, scrive:
"Slicing Potatoes ha ben accettato di occuparsi della questione e vi chiedo di far riferimento a lei. Vedrete, she is such a sweet girl."
Such a lovely girl.

Io non la riesco a descrivere la sensazione fisica che mi prende alla bocca dello stomaco e alla pelle quando sento o leggo queste frasi. Subito è quella a prendere il sopravvento, poi la razionalità subentra e capisco:

Capisco che questa è l'essenza del più classico maschilismo paternalista, con cui noi donne, professioniste, competenti, che ci siamo fatte un culo così per arrivare dove siamo, veniamo prontamente rimesse al nostro posto, un gradino almeno più in basso di dove eravamo salite, grazie ad una definizione - girl - che avendo io 38 anni non solo non mi appartiene, ma che in ambito lavorativo non deve assolutamente definirmi, ed ad un aggettivo -lovely, sweet - che vuole essere quello zuccherino che l'uomo capo ci rifila pensando di farci un piacere mentre ci accarezza la testa dall'alto della sua posizione di potere che mai riusciremo a scalfire.
E questo è un modo perfetto per ricordare l'evidenza a noi e agli altri.

No cazzo. Io sono sweet. Sono absolutely lovely, e charming, e adorable. Lo sono.
E sono pure molto donna. Molto.
Ma quando lavoro, prima di tutto sono medico, faccio ricerca e studio da una vita, e voglio essere definita per questo. Il mio essere donna gentile sarà sempre presente nel mio lavoro, eccome se lo sarà!, ma non lo definirà mai più e prima della mia competenza.

Quel giorno dell'email del mio capo, caso vuole che il Teodolindo mi abbia chiamato al telefono mentre io ero ancora in fase guance infiammate dalla frustrazione e mani che prudono. Mi sfogo con lui, che mi ascolta e poi risponde: "Hai ragione ad arrabbiarti, perché tu non sei solo lovely, sai essere anche bitchy".

"What?! You too?!"


Ho spiegato al Teodolindo che il problema non era solo l'aggettivo, ma lo stesso chiamarmi "girl".
"Dimmi, amore mio, al lavoro qualcuno ti ha mai presentato dicendo "Ecco Teodolindo, is such a nice boy" e tu sei in assoluto una degli uomini più gentili che io conosca! Eh? È mai successo?"
Silenzio.
Poi: "Capisco. Hai ragione. Mi dispiace."

Tutto ciò fino a ieri sera.
Eravamo a tavola con i miei genitori, qui in visita, e il Teodolindo stava raccontando di un conoscente che si era rivolto per un consulto medico ad un primario, uomo, e questi l'ha poi inviato per competenza ad una sua collega donna. Il nostro conoscente è andato alla visita dalla dottoressa, poi però è voluto tornare dal primario. Diceva il Teodolindo:
"E la dottoressa era carina ed esperta proprio in quella malattia, eh, ma lui voleva il primario! Ah 'sta fissa italica per voler andare sempre dal primario! Ah ah!"
I miei sorridono e continuano a mangiare.
Io mi gelo e guardo il Teodolindo negli occhi.
E lui capisce.
"È perche ho detto che la dottoressa era carina, vero?"
"Sì".
"Scusa. È che ho riportato quello che mi ha detto lui e non ci ho fatto caso. Scusa, non me n'ero accorto che l'avesse definita carina prima di tutto. Cazzo, hai ragione.".

Capito? Nessuno ne è immune.

E allora? Che si fa?

Si educa. Non ci si deve stancare di educare, di rompere i coglioni. Agli uomini e soprattutto ai bambini. Intendo alle femmine come, se non di più, ai maschi.
Come scriveva una femminista nera in una lettera immaginaria alle donne bianche

"Bake your sons cookies and serve them with a pitcher of fresh-squeezed lemonade while you impress upon them that they are not the center of the fucking universe despite what everyone says. Then, take your daughters for some retail therapy and explain to them that they are not the Hope Diamond personified even though every magazine, movie, teacher and textbook will have them believing they're the most precious commodity on earth."

Sig. Tenace sei avvisato: la tua mamma - speriamo accompagnata dal tuo papà - ti farà un culo quadro perché tu impari cosa significa la parità tra uomo e donna.







Wednesday, October 29, 2014

The man as seen by the man

Quando Julian Forrest, da Montreal, si è stabilito ad Edmonton, nel profondo ovest canadese, si è trovato in una situazione inaspettata.
Lui: alto, magro, "Teodolindiforme" in altre parole, con sciarpa dandy al collo, coppola in testa, pennelli e colori nella testa e nella valigia.

Julian, nel suo studio qui a Montreal, durante l'anno sabbatico
Gli altri: uomini grandi, grossi, massicci. Niente sciarpe o orpelli, niente pennelli e quadri, piuttosto barbecues sempre accesi, armi non disdegnate e petrolio per lavoro in quell'Alberta che si sta arricchendo.

Oil country, 2009.


In quel momento Julian, uomo, si è trovato a riflettere sull'uomo, o meglio sul maschio.

Quando l'ho conosciuto, sono rimasta affascinata da questa sua indagine sulla mascolinità. Già sono rare le artiste donne che riflettono sulla femminilità, ma un artista uomo che si interroga sul maschio e sulla virilità credo sia ancora più eccezionale.

Questi sono i risultati della sua riflessione, che continua ancora oggi e su cui noi qui a Montreal, tra un bicchiere di vino e l'altro quando Julian passa a trovarci, aspettiamo continui aggiornamenti.

Flex, 2005.


Crown of bullets, 2007.


Monomania, 2013


Perceptual disorders (detail), 2014.

Perceptual disorders (details), 2014.


[Tutte le immagini dei quadri sono prese dal suo sito personale: http://julianforrest.com/home.html]